Alberto Zanchetta è nato a Trento e ha diretto dal 2013 al 2020 Museo d’Arte Contemporanea di Lissone per il quale ha curato “1946~1967: Il Premio Lissone” che racconta la storia di uno dei premi di pittura più importanti del secondo dopoguerra. Ha presentato oltre quattrocento mostre presso istituzioni pubbliche e gallerie private e attualmente insegna all’Accademia di Belle Arti di Urbino e dal 6 al 28 agosto ha curato la mostra personale Grauer Raum di Silvia Capuzzo allo Spazio Bianco di Pesaro.
Roberto Brunelli: Puoi raccontarci come e perché ti sei avvicinato al mondo dell’arte contemporanea?
Alberto Zanchetta: «Da vent’anni a questa parte sono sempre stato restio a rilasciare notizie personali, di solito replicavo alla maniera di Andy Warhol: “Non mi piace dare informazioni sulla mia vita e in ogni caso, ogni volta che me le chiedono, dico cose diverse”.
In via del tutto eccezionale, questa volta voglio soddisfare la richiesta: ho iniziato ad appassionarmi alla Storia dell’arte negli ultimi anni in cui frequentavo l’Istituto tecnico di Grafica pubblicitaria, e poiché mi incuriosiva approfondire gli aspetti tecnici e teorici dell’arte ho deciso di iscrivermi all’Accademia di Belle Arti di Bologna.
All’inizio pensavo di formarmi come artista, ma dopo due anni ho iniziato a sviluppare un crescente interesse per la critica d’arte e le pratiche curatoriali. Ancor prima di diplomarmi avevo già organizzato mostre per i miei compagni di corso, e da allora non ho più smesso».
R.B.: Personalmente trovo geniale e, permettimelo, molto romantico il modo come hai organizzato le tue prime mostre bolognesi. Ti va di ripercorrere con noi quell’esperienza…
A.Z.: «Ero affascinato dai linguaggi visivi e verbali, avvertivo altresì l’urgenza di procacciare delle opportunità espositive.
All’inizio ho affittato un monolocale nel pieno centro di Bologna, dove sono riuscito a organizzare una dozzina di mostre (è stata una stagione intensa, tanto più perché dovevo scegliere se convivere con l’arte o lasciarle posto all’interno dell’appartamento).
Nello stesso periodo ho stretto amicizia con Giuliano Gavioli, allora titolare dello spazio interno&dumdum, di cui ho seguito la programmazione per diversi d’anni. Dopo un’intensa attività espositiva in spazi autogestiti e alternativi sono approdato alle gallerie private, e non molto tempo più tardi sono arrivate le prime collaborazioni con i musei».
R.B.: Convieni sulla riflessione che nel mondo dei critici d’arte esistano delle “aree di influenza” che vedono i più giovani, più o meno consapevolmente, seguire i gusti di loro colleghi più in vista sacrificando, almeno all’inzio, le proprie idee…
A.Z.: «Ne convengo. Anch’io ho affrontato questo dilemma e sono riuscito a esorcizzarlo dopo aver visto un film diretto e interpretato da John Turturro; ancor oggi ricordo quella sua battuta fulminante: “Ci sono solo due modi di fare le cose, quello giusto e il mio… e sono la stessa cosa”. Da allora non presto più troppa importanza al “modo degli altri”».
R.B.: Quando eri il Direttore del MAC di Lissone, seppi del tuo progetto per una serie di incontri al museo, in cui uno o più collezionisti avrebbero dovuto portare una propria opera, attorno alla quale, assieme all’artista che l’aveva creata, si sarebbe dovuto poi animare un incontro/dibattito. Perché quell’esperienza non si è concretizzata?
A.Z.: «I Direttori dei musei avanzano proposte che sono al vaglio degli Amministratori, i quali hanno sempre l’ultima parola. Accade spesso, però, che le decisioni vengano procrastinate e finiscano in prescrizione con l’incalzare di nuove idee o progetti. Credo che ogni Direttore desideri fare decine, centinaia, se non addirittura migliaia di cose, gran parte delle quali si scontrano con una snervante e soporifera burocrazia».
R.B.: Sei stato un critico che ha seguito gli artisti nati tra il ‘60/’70, penso ad esempio alla mostra “Plenitudini” alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di San Marino nel 2009. Secondo te è possibile una riscoperta degli artisti più meritevoli degli anni Novanta, che all’epoca hanno creato opere che per il loro valore storico-artistico sono ancor oggi attualissime?
A.Z.: «Non potrebbe essere diversamente. Le riscoperte avvengono continuamente, ma è necessario lasciare decantare e sedimentare gli avvenimenti per poterli esaminare in una esatta prospettiva storicistica. Non bisogna cioè forzare i tempi, tutto deve avvenire in modo naturale, per necessità e non per interesse».
R.B.: Quale sarebbe per te la sede ideale dove istituire un tavolo permanente sull’arte degli anni ‘90 e fare incontrare i critici che volessero accogliere questo invito?
A.Z.: «Qualsiasi museo, archivio o accademia potrebbe soddisfare questa impellenza. Non è importante il luogo, bensì i contenuti».
R.B.: Saresti disponibile a prendere parte a un percorso che dovrebbe, nelle mia idea, concretizzarsi in un progetto espositivo da sottoporre al Ministro della Cultura per essere poi realizzato nel Padiglione Italia in una futura Biennale di Venezia?
A.Z.: «Alcuni colleghi mi definiscono un antisistemico, e in effetti mi riuscirebbe difficile prender parte a un’iniziativa di questo tipo».
R.B.: Che ruolo potrebbe avere, in tutto questo, il collezionismo italiano ed internazionale?
A.Z.: «Ritengo che il collezionismo sia assolutamente determinante (certuni direbbero influente) nel periodo storico che stiamo vivendo. A questo proposito mi sentirei di dire che “il collezionismo è la nuova critica d’arte”».
R.B.: Per finire ci puoi parlare di Alberto Zanchetta oggi? Progetti, sogni e idee per il futuro prossimo…
A.Z.: «Attualmente sto censendo, e allo stesso tempo incrementando, la neonata Collezione d’arte dell’Accademia di Belle Arti di Urbino che verrà presentata al pubblico con una serie di mostre a tema. Ovviamente sono tornato a collaborare con le gallerie private, che avevo trascurato durante il mio incarico al Museo di Lissone, ma soprattutto ho ripreso a scrivere dei lunghi saggi su argomenti che mi stanno particolarmente a cuore, in particolare gli “errori” della Storia dell’arte. Nell’immediato futuro vorrei però dedicarmi all’insegnamento, attività che più di tutte gratifica i miei sforzi teorici».