Stasera Parigi ha il respiro di una vecchia amante: umida, inaspettatamente fredda, ma ancora capace di accendere il desiderio di qualche vecchio sporcaccione, oppure di qualche nuova leva.
La pioggia batte pesante sui marciapiedi come facevano le dita di Michel Petrucciani sul suo pianoforte; il traffico è un fiume di luci riflesse, con buona pace degli amanti della bicicletta in sharing. Eppure la città conserva sempre quel fascino decadente che la rende unica.
È la stessa Parigi che ha visto nascere i miti di Proust, di Flaubert, quella che ha accolto Picasso e pure Jim Morrison nei suoi ultimi giorni. Io, per quel che conta, confesso di aver visitato la tomba di Morrison a Père Lachaise più volte di quella di mio padre. È un luogo dove anche la persona meno spirituale riesce a percepire qualcosa di sacro. Tra una bottiglia e l’altra.
Ogni ritorno a Parigi alla fine è un pellegrinaggio, un incontro con il passato che continua a vivere nel presente.
Eppure, nonostante la pioggia e il freddo, la città pulsa di vita. Art Basel Paris 2025 al Grand Palais è la prova che l’arte non conosce crisi. Se ne frega proprio, delle guerre e delle carestie. Non so se sia un bene o solo una celebrazione massima del capitalismo più tossico, ma tant’è.
Nonostante le difficoltà economiche globali, la fiera ha registrato vendite record.
Hauser & Wirth ha venduto un “Abstraktes Bild” (1987) di Gerhard Richter per 23 milioni di dollari (pare la più alta della fiera, onestamente non sentivo di una vendita del genere per il tedesco da almeno 6 o 7 anni). Pace Gallery ha chiuso un accordo per “Jeune fille aux macarons” (1918) di Amedeo Modigliani a poco meno di 10 milioni di dollari. Si tratta di una recente riscoperta e di un plauso alla città d’elezione del pittore livornese, pare sia stato acquisito da un museo.

Un sacco di Burri è passato di mano per 4,2 milioni da Ropac. Almine Rech ha registrato vendite significative, tra cui Picasso, Ewa Juszkiewicz e Ji Xin. Gagosian ha ricominciato a diffondere i dati sulle sue, di vendite, per capirci.
Le gallerie americane restano quelle che dominano la scena: Pace, Hauser & Wirth, David Zwirner, Marian Goodman. I loro stand sono affollati da collezionisti internazionali, molti dei quali yankee (Raffaella Cortese ci ha confidato che nel suo booth più della metà dei collezionisti all’opening erano proprio americani) a testimonianza di un ritorno dell’arte a Parigi come centro nevralgico del mercato globale. Le opere in mostra spaziano dal moderno al contemporaneo, con pezzi di Agnes Martin, Lee Ufan, Claire Tabouret e molti altri.
La pioggia batte incessante durante l’opening ma la città non si scompone. Il Grand Palais, cuore pulsante dell’arte contemporanea, riafferma il ruolo di Parigi come capitale globale dell’arte.
Infatti, non è solo una fiera. È un evento che coinvolge tutta la città.

Il Centre Pompidou ha salutato la ville Lumière con un’orgia di fuochi d’artificio firmata Cai Guo-Qiang, e io sono lì, fradicio, con il naso all’insù e il cuore che batte come un tamburo tribale.
Le Dernier Carnaval esplode in tre atti: un banchetto surreale di luci e fumo, l’intelligenza artificiale che sembra svegliarsi sulla facciata del Beaubourg, e infine l’ultimo carnevale, un tripudio di colori che ti brucia la retina e istruisce l’anima. Non è solo pirotecnica: è poesia al colpo di cannone, è un addio al Pompidou come se Picasso stesso lo stesse salutando dall’alto dei cieli. Il fumo si mescola alla pioggia e ai tetti grigi della città, la folla ride, grida, fotografa, e io penso che mai, nemmeno a New York, avevo visto un simile caos ordinato, dentro al ventre di Parigi con tutta la sua follia, il suo genio e la sua ironia.
Il Musée d’Orsay, per compensare, ospita una retrospettiva su Gerhard Richter, mentre Design Miami Paris ha registrato un’affluenza record, con opere di designer emergenti e affermati in esposizione.
Passeggiando per le strade bagnate, tra i rossi dei mattoni e il profumo dei formaggi che si mescola all’umidità della Senna, non posso fare a meno di pensare al filo invisibile che lega questa Parigi a generazioni di artisti, scrittori e musicisti.
La città alla fine resta fedele a sé stessa, e chi arriva qui percepisce che nulla è cambiato davvero: il cuore pulsante dell’arte continua a battere con forza, e ogni visitatore, ogni collezionista, ogni semplice passante, partecipa a questo battito




