«L’arte di oggi non è più un’arte spirituale per le chiese, ma è un’arte per il governo sacralizzata dai media e dalle pubblicità». Così, in Why Natter Matters (2014), il filosofo Maurizio Ferarris si riferisce ad una crisi spirituale ed estetica: l’iper-spiritualizzazione dell’arte, divenuta concettuale, ha provocato la crisi dell’estetica. Ferraris si interroga sull’aura dell’opera d’arte contemporanea, sulla fine del bello e sul pensiero degli archeologi del futuro sull’arte di oggi. Per il filosofo l’arte ha smesso da decenni di fare i conti con la bellezza ed è inutile rimpiangerla; divergente è il pensiero sulla bruttezza con cui l’arte continua a fare i conti, e parecchio. My Bed di Tracey Enim, l’opera che è stata battuta all’asta di Christie’s per circa due milioni e mezzo di sterline, riflette bene il pensiero del Professore torinese. Come un objet trouvé di Duchampiana memoria, l’artista decide di riproporre il suo letto o meglio quello che rimaneva di una notte alcolica della Londra di fine anni Novanta: un letto sfatto ricoperto di sigarette, di preservativi e di sangue. L’opera è diventata famosissima e se ha raggiunto queste quotazioni vorrà pur dire qualcosa. Fu Walter Benjamin a predire la distruzione dell’aura e dell’unicità dell’opera d’arte a causa della massificazione dell’offerta artistica e dell’era della riproduzione meccanica delle immagini nel cinema e nella fotografia, ma quello che è successo sembra il contrario: «Oggi viviamo in una perpetua adorazione dell’arte e degli artisti che consacrano gli oggetti in arte attraverso gli scritti sempre più ermetici dei critici».
A partire dalle avanguardie storiche la ieraticità dell’arte classica ha fatto posto ad un’arte dissacrante e indifferente nei confronti dell’estetica del bello. Una ruota di bicicletta, uno scolabottiglie, un orinatoio diventano il simbolo di perdita e di rinascita (concettuale) dell’aura. Nel corso dell’Ottocento e del Novecento l’arte si è desacralizzata ed è diventata fruibile da un pubblico sempre più vasto. L’espansione del mercato e della produzione artistica ha causato, infatti, un bisogno d’arte sempre più forte. La nascita di fondazioni museali, tuttavia, ha comportato una nuova ricollocazione dell’aura, più che la sua perdita: da una fruizione privata e personale dell’opera si è passati a quella pubblica, monumentale e commerciale. «l’arte non è morta – afferma Ferraris -, ma avrebbe sostituito quella che un tempo era la religione: i musei sono diventati templi, i visitatori penitenti, i collezionisti sono mercanti d’aura». Secondo Alessandro dal Lago e Serena Giordano dato che la fotografia, in quanto “tecnica esattissima”, non ha eliminato totalmente l’aura (ma semmai ne ha inventata una nuova), così anche l’arte contemporanea e sperimentale, capace di creare dimensioni estetiche originali, non avrebbe perso alcun aura. Duchamp con i suoi readymade separava gli oggetti dal loro valore d’uso conferendoli valore artistico: «basta che un oggetto sia un’opera d’arte per essere dotato di un’aura artistica». Il quesito su cui oggi bisogna interrogarsi forse è un altro. Bisognerebbe rivolgersi al mercato e alla «mercificazione dell’aura o all’aurizzazione della merce».
Alcune aziende erano recentemente interessate all’acquisto della mia aura, non volevano i miei prodotti. Continuavano a dirmi vogliamo la tua aura. Non sono mai riuscito a capire che cosa volessero. Ma sarebbero stati disposti a pagare un mucchio di soldi per averla. Ho pensato allora che se qualcuno era disposto a pagarla tanto, avrei dovuto immaginarmi cosa fosse.
(Andy Warhol, La filosofia di Andy Warhol)
Cosa sicuramente rimane di un’opera d’arte è il prezzo. Secondo Karl Marx una cosa diventa merce quando si afferma il suo valore di scambio, quando essa viene scambiata con il suo equivalente universale: il denaro. E ciò avviene sicuramente con l’arte. L’opera permette più di qualsiasi altra merce molteplici tipi di fruizione da quella estetica a quella economica. Una volta tolto il valore d’uso all’arte, questa può essere acquistata per un determinato valore. Come ogni altra merce il valore dell’arte non dipende tanto dalle qualità intrinseche, ma dal fatto di essere venduta con promozione e confezione adeguate: la certificazione della qualità artistica avviene attraverso i verdetti dei critici, i mass media, riviste specializzate indispensabili per dare visibilità alle grandi mostre e ai premi internazionali. (Leggi-> Tele e Banconote)
Con il venir meno della “qualità”, la produzione artistica ha cominciato a dipendere da strategie di mercato sempre più raffinate. Le quotazioni di molti artisti sono salite in modo proporzionale al mito o alle provocazioni che gli stessi hanno saputo creare di sé. Maurizio Cattelan è il provocatore per eccellenza: le sue opere coniugano ironia e critica al mondo odierno. Egli fa parte di quel gruppo di artisti che riescono a far cadere le strutture stesse all’interno delle quali si evolvono, facendo a pezzi le certezze del mondo dell’arte e del relativo mercato.
La figura dell’artista si proclama a personaggio pubblico alimentando la spettacolarizzazione dell’arte e trasformandosi in una marca che garantisce il valore delle opere: i dispositivi economici e istituzionali che sostengono l’arte contemporanea non hanno compromesso la sua credibilità commerciale, mondana e culturale. Il denaro influenza tutto e tutti, i prezzi definiscono il valore e determinano la soddisfazione dell’acquirente tanto che a volte sembra che sia il mercato a creare il gusto.
Secondo Pierre Bourdieu il valore dell’arte non è definito dai caratteri intrinseci dell’opera, ma dalla società stessa. La ricerca di uno status symbol può essere un fattore decisivo per l’acquisto. L’arte contemporanea è in continuo divenire e i grandi galleristi e le case d’aste giocano un ruolo cruciale nella popolarità e nell’affermazione degli artisti; funzionano come veri e propri marchi, i loro nomi trasmettono sicurezza e distinzione. Parlare di brand in arte contemporanea non piace affatto. Non piace alle case d’aste, ai galleristi, agli artisti, ai critici. La verità è che spesso il branding può sostituire il giudizio critico. Spesso il valore di un’opera è più legato al brand dell’artista, del gallerista, delle case d’aste e all’ego del collezionista, piuttosto che al contenuto artistico e alle capacità impiegate per realizzarla.