Quando – poco dopo l’inizio del lockdown – la mia amica Marta Severo mi ha parlato dell’archivio fotografico di Vetrine in Quarantena, ho capito per quale ragione mi fosse già capitato di voler immortalare, del tutto spontaneamente, alcuni dei messaggi e delle manifestazioni artistiche che iniziavano a spuntare sulle vetrine e per le strade di una Parigi che aveva ormai chiuso i suoi altrimenti ben vivaci battenti.
Il fatto di essere un’italiana residente nella Ville Lumière mi aveva fatto vivere i giorni precedenti l’annuncio della quarantena come in una sorta di interminabile moviola: dall’Italia, già da un paio di settimane amici e familiari mi facevano parte di funeste telecronache e, per quanto qui noi expat ci dimenassimo per mettere in guardia dall’imminente pericolo, sembrava impossibile far comprendere ai cugini francesi che era davvero tempo di darsi una regolata anche Oltralpe. Le prime foto scatatte furtivamente ai platetatici di bar e ristoranti stracolmi di gente, e inviate in patria, volevano dire “guardate come stiamo messi qui”.
Ricordo di aver acquistato la mia prima mascherina in una farmacia poco distante dalla Place de la République (prima che quelle disponibili fossero requisite per essere riservate al personale sanitario), e di averla indossata quello stesso pomeriggio sotto gli sguardi diffidenti e vagamenti sbeffeggianti degli avventori di un supermercato. Gli archivi Whatsapp mi dicono si trattasse del 12 di marzo. Il 14, il primo ministro Édouard Philippe avrebbe annunciato l’inizio del confinement, il 15 si sarebbero svolte le discusse elezioni e, chiuso anche l’ultimo bistrot, dal 17 saremmo rimasti tutti a casa, con una decina di giorni di sfasamento rispetto all’Italia.
A dare nuova linfa alla già complessa dialettica tra locale e globale, la libertà di movimento era limitata alla stretta necessità e al raggio di un chilometro dall’orticello in cui si era deciso di confinarsi (come sono piccini, gli appartamenti parigini!), mentre la tv ci portava notizie e immagini da casa e da altri paesi lontani, ognuno a suo modo preso dalle prove tecniche di battaglia contro il virus.
Che si trattasse di un momento eccezionale per tutti è stato chiaro sin da subito anche al più incallito dei complottisti, ma non sapevamo quanto questo sarebbe durato, né come avrebbe cambiato le nostre giornate e modificato il volto delle nostre città.
Parlai al telefono con Marta qualche giorno dopo l’essermi barricata in casa con grande serietà. Veronese da anni in suolo parigino, Marta è professoressa all’Università di Parigi-Nanterre e si interessa, tra le altre cose, di pratiche partecipative e contributive – soprattutto digitali – legate al patrimonio culturale.
Mi raccontò del progetto al quale stava lavorando.
Mentre fuori impazzava il “restiamo a casa”, lei e la collega Sarah Gensburger si erano date come obiettivo quello di promuovere e sistematizzare una pratica che stava nascendo spontaneamente tra i cittadini: quella di fotografare, durante le brevi uscite consentite, i messaggi comparsi dapprima sulle vetrine di negozi e locali chiusi fino a nuovo ordine, e poi via via su facciate private, muri, finestre e balconi della città sotto Covid-19.
Veniva così lanciata la sfida collaborativa di Vetrine in Quarantena (Vitrines en Confinement), alla quale mi ha fatto piacere portare il mio personale contributo tramite qualche scatto preso soprattutto nella zona del Canal Saint Martin. Obiettivo: raccogliere e catalogare quante più immagini possibili dello spazio pubblico durante (e dopo) la quarantena.
Come spesso accade, il primo nocciolo di partecipanti si è costruito infatti attorno ad amici e conoscenti, ma grazie al passaparola e al tam tam sui social, il progetto non ha tardato a prendere più ampio respiro. Se nessuno si è improvvisato Cartier-Bresson, in molti, armati di smartphone e stimolati dall’aspetto anche ludico dell’iniziativa, hanno accettato la sfida di farsi semplici reporter del quotidiano, testimoniando, attraverso i loro scatti, la rabbia e la difficoltà espresse da una parte della popolazione, i contenuti politici e di rivendicazione apparsi su muri e balconi, il patriottismo, la speranza dei negozianti, la capacità di fare dell’ironia (alcuni dei messaggi apparsi fanno davvero sorridere).
Un attivissimo gruppo Facebook, messaggi su Twitter e Instagram corredati dello specifico hashtag e contributi pubblicati direttamente sulla piattaforma collaborativa hanno dato vita a un grande processo partecipativo di raccolta di immagini dei quartieri all’epoca del coronavirus, un corpus che costituirà materiale per la ricerca scientifica e memoria collettiva da trasmettere alle generazioni future.