Attiro la tua attenzione su questo termine importante: l’icona si dipinge sulla luce e di qui, come mi sto sforzando di chiarire, emerge tutta l’ontologia della pittura d’icone. La luce, come vuole la migliore tradizione dell’icona, si dipinge con l’oro, cioè si manifesta appunto come luce, pura luce, non come colore. Così dice il grande filosofo e sacerdote novecentesco Pavel Florenskij nel suo Le porte regali. Saggio sull’icona, edito in Italia da Adelphi.
Qualcuno tra i miei venticinque lettori si ricorderà del vecchio articolo qui comparso sulle icone russe. In esso si citava il Vasari, il quale utilizzava i pittori greci – ossia bizantini – e la loro pittura goffa, come termine di paragone negativo rispetto alla rivoluzione del Cimabue. Il paragone è calzante, sebbene in un senso un po’ diverso da quanto intendesse l’aretino.
Cosa, infatti, condividono le icone ortodosse e la pittura su tavola di Cimabue e dei suoi coevi pittori italiani? Il fondo oro, naturalmente. Ma il significato della doratura che, secondo Florenskij e secondo l’estetica ortodossa, è lo spazio della luce divina, perde di senso nella pittura italiana, poiché in essa, al contrario, la luce si manifesta piuttosto nel colore e nei suoi valori tonali e chiaroscurali.
Roberto Longhi sosteneva che la pittura italiana delle origini cercasse di imitare la preziosità di un’arte considerata ben più nobile e ricca, ovvero l’oreficeria. Si capisce bene che significato assuma, data questa considerazione, il fondo oro della pala italiana: un gran sfavillare d’oro più luccica, più è simile a un gioiello.
Con Cimabue e soprattutto con Giotto, la pittura italiana comincia il suo percorso di sviluppo in senso spaziale e prospettico. È naturale che, in quest’ottica, il fondo oro diventi via via fuori luogo. Così scrive Leon Battista Alberti, massimo teorico dell’arte prospettica, a metà del Quattrocento: truovasi chi adopera molto in sue storie oro, che stima porga maestà. Non lo lodo. […] Nei colori, imitando l’oro, sta più ammirazione e lode all’artefice.
Giudizio duro sui doratori, quello dell’Alberti. Ma fino alla fine del suo secolo, il fondo oro continua a resistere. Infatti, il trattato di Cennino Cennini – testimonianza diretta della tecnica pittorica di una bottega di appena una generazione prima di quella dell’Alberti – dedica diversi passaggi alle varie tecniche per mettere la foglia d’oro su tavola.
Scrive Cennini, sappi che ll’oro che ssi mette in piani non se ne vorrebbe trarre del duchato altro che cciento pezzi, dove se ne trae cientoquarantacinque, però che quel del piano vuole essere oro più appannato. E ghuarda, quando vuoi cognoscere l’oro, quando il comperi, toglilo da persona che ssia buon “battiloro” (colui che pesta l’oro fini a renderlo in fogli). E ghuarda l’oro, che sse ‘l vedi mareggiante e tristo, come di charta di chiavretto, allora tiello buono. In cornici o in fogliami si passa meglio d’oro più sottile; ma per li fregi gentili delli adornamenti de’ mordenti, vuole essere oro sottolissimo e ragniato.
Al di là della poesia dell’italiano del Quattrocento, che con ragniato intende un foglio rado e leggero come una ragnatela, Cennini dimostra come anche i pittori italiani avessero buona cura di selezionare l’oro come materiale fondamentale per l’esecuzione di un dipinto.
Dal Cinquecento in avanti, tuttavia, la doratura sparisce dai dipinti. O meglio, sparisce dal centro per essere relegata alla cornice, a impreziosirne le volute in legno intagliato o in stucco. Laddove ci sia bisogno di rendere l’effetto dell’oro, ad esempio di un abito in broccato, si sfrutteranno le proprietà materiche della biacca e dei pigmenti suoi derivati, come fece Rembrandt nel celebre Festino di Baldassare alla National Gallery di Londra.
Non si troverà più oro vero su un dipinto, se non in qualche sporadico caso, come nella pittura di Gustav Klimt, dove però esso ha una funzione assolutamente decorativa vagamente bizantineggiante, secondo l’eterno sforzo del pittore austriaco di ricreare la vibrazione dei mosaici ravennati.
Addirittura, Josef Beuys, artista culto degli anni ‘70 del Novecento, arriverà a rivestire con foglia d’oro il proprio volto nel corso della celebre performance Come spiegare la pittura a una lepre morta. Un uso totalmente avulso dai fasti del passato.
Si può dire, quindi, che la pittura dell’Europa occidentale – e in specie quella italiana – abbia lentamente ucciso il fondo oro. L’Alberti sarebbe contento del risultato se fosse ancora tra noi. Florenskij, però, sostiene che lo spazio sacro della luce dorata ha fatto dell’arte delle icone a fondo oro la massima espressione umana, al pari solo della scultura greca classica. Due punti di vista totalmente opposti, per una questione tutta da dibattere.