Van Gogh era tanto ossessionato dalla pittura quanto lo era dalla scrittura. Nel giro di una ventina d’anni, produsse un migliaio di lettere, la maggior parte delle quali destinate al buon fratello Theo, suo principale sostenitore e sostentatore. Il Van Gogh Museum di Amsterdam ne ha digitalizzato gli originali manoscritti, messi poi a disposizione gratuitamente – insieme a una traduzione in inglese, ad annotazioni e riferimenti iconografici – su un sito dedicato.
Sono lettere davvero belle e ben scritte, senza quei garbugli retorici tipici degli scritti d’arte dell’epoca, dalle quali traspare un Van Gogh privo di quella personalità melensa attribuitagli dal mito postumo che ancora oggi dà da mangiare a un sacco di scrittori, registi e curatori di mostre.
Soprattutto, sono lettere utilissime sì per seguirne la parabola biografica e intellettuale, ma anche per raccogliere informazioni sul profilo più propriamente tecnico e pittorico, quello su cui, in genere, ci si sofferma meno.
Una lettura a questo scopo, in Italia, l’aveva proposta – in una sua opera uscita dopo la prematura morte, avvenuta nel 1994 – Alessandro Conti, grande storico del restauro dell’Ateneo di Bologna, aprendo interessanti percorsi di studio sul rapporto tra artisti, materia della loro opera e conservazione.
Nel suo Manuale di restauro, infatti, è sottilmente messo in discussione quel concetto di recupero di una presunta unità dell’opera d’arte.
Concetto derivante da una lettura eccessivamente entusiasta della Teoria del Brandi, la quale dedica sì notevole rilevanza al concetto di materia dell’opera – campo d’azione concreto dell’attività del restauro dell’opera d’arte – ma mette in guardia dallo spingersi sino ai limiti della falsificazione. Tendenza che in molti restauri eseguiti in Italia, specie tra gli anni ‘70 e gli ‘80, è invece lampante.
Conti analizza dapprima l’atteggiamento fatalista di Goya, ben descritto dallo stesso in una lettera indirizzata a Pedro Cevallos, primo ministro della Spagna napoleonica, dopo aver preso visione del risultato di alcuni restauri: non riesco a riferire a Vostra Eccellenza la dissonanza provocatami dal confronto tra le parti ritoccate con quelle che non lo erano, perché in quelle il brio e il coraggio dei pennelli e la maestria dei tocchi delicati e sapienti dell’originale erano scomparsi ed erano stati del tutto distrutti. […] Non è facile recuperare l’intento istantaneo e fugace della fantasia, dell’accordo e del concerto della prima esecuzione.
La convinzione di Goya è un po’ figlia dell’idea del Tempo pittore di un secolo prima, un po’ delle idee proto romantiche della sua epoca. Riconducibile, cioè, alla creatività casuale e gestuale legata ai materiali oleosi, secondo la buona sintesi delle parole del Conti.
Ben diverso è l’atteggiamento di Van Gogh, quasi un secolo dopo: non preoccuparti se le pennellate sui miei dipinti hanno sporgenze più piccole o più grandi. Se dopo un anno le si raschia rapidamente con una lametta, si avrà un colore molto più stabile di quanto si avrebbe con il colore applicato in strati più sottili. Questo raschiamento lo facevano sia i maestri di un tempo che i pittori francesi di oggi. (lettera a Theo del 3 o 4 novembre 1885)
Sì comprende quanto i due approcci differiscano: se per Goya nemmeno l’artista sarebbe in grado di replicare l’accordo cromatico raggiunto dall’opera che subisce il tempo, per Van Gogh, invece, la materia pittorica può essere tranquillamente manipolata, anche per recuperarne la vivacità del colore e la freschezza espressiva.
Due approcci differenti che sfociano entrambi, però, in un’opposizione virtuale a ogni teoria del restauro: per Goya, l’istanza estetica non è replicabile, mentre per Van Gogh, quella storica non è rilevante. E, infatti, i due artisti sono figli di epoche in cui una teoria del restauro nemmeno esisteva se non come appannaggio intellettuale di pochi pionieri.
In una lettere al critico Albert Aurier, il pittore olandese si spinge a dare consigli anche più sbarazzini: quando lo studio (sulle foglie d’autunno, ndr) che le ho mandato sarà completamente asciugato – cosa che non succederà prima di un’anno – farebbe bene a stenderci una buona mano di vernice. Nel frattempo, il dipinto dovrebbe essere lavato con molta acqua per toglierne via totalmente l’olio. (lettera ad Albert Aurier, 10 febbraio 1890)
Consiglio che dato oggi farebbe piangere, ma che nella logica di Van Gogh è funzionale alla qualità espressiva della pittura, veicolata dalla materia ma ad essa non vincolata: il legante oleoso diventa solo un ostacolo di cui liberarsi per sprigionare la pura espressività del colore.
Non è un caso, forse, che quest’ultima lettera fosse indirizzata a monsieur Aurier, ossia l’unico a spendersi in elogi all’olandese quando era ancora vivo, in un articolo comparso sul Mercure de France del 1 gennaio 1890, di cui mi sembra d’uopo riportare un passo:
Il rispetto e l’amore per la realtà delle cose non bastano da soli a spiegare o a caratterizzare l’arte profonda, complessa e del tutto peculiare di Vincent Van Gogh. Senza dubbio, come tutti i pittori della sua razza, è consapevole della realtà materiale, della sua importanza e della sua bellezza; ma, ancor più spesso, considera questa solo come una sorta di meraviglioso linguaggio destinato a tradurre l’Idea. È, quasi sempre, un simbolista…che sente il bisogno continuo di rivestire le sue idee di forme precise, ponderabili, tangibili, di esteriorità intensamente sensuale e materica.