Tra la fine degli anni ’50 e la prima metà degli anni ’60 in Europa fanno la loro comparsa gruppi, correnti e movimenti artistici che, attraverso la costruzione di opere semoventi o fondate sull’illusione ottica, pongono al centro del loro lavoro la ricerca sulla percezione dell’osservatore e le sue interazioni con l’opera: si parla spesso in questo caso indifferentemente di arte cinetica, optical, oppure programmata, dalla definizione coniata da Bruno Munari nel 1962.
Alcuni di questi lavori vengono costruiti con un motore interno, che li fa muovere, li sposta, ne scompone e ricompone le parti, facendo sì che l’opera sembri in continua trasformazione, alle volte addirittura sempre originale da quanti sono i possibili aspetti che può assumere. Altre opere invece sono statiche, ma sembrano muoversi in virtù di un’illusione ottica dell’osservatore, che, spostandosi, ha l’impressione che siano in movimento.
Che il movimento sia effettivo o solo frutto di un’illusione, ciò che questi lavori stimolano è soprattutto l’interesse, la curiosità verso il meccanismo, le dinamiche del processo, in altre parole il famoso “com’è fatto”. Nel caso specifico delle opere d’arte cinetica, optical e programmata, tale processo viene a coincidere con la programmazione, appunto: tutto il procedimento, dalla pianificazione alla sua concreta realizzazione, infatti, costituisce il tentativo di studiare materiali, composizioni, spazi e struttura in modo da ottenere determinati tipi di risultati visivi.
Ecco quindi perché arte cinetica, optical e programmata possono essere considerati quasi dei sinonimi, facendo leva sul loro comune denominatore, la programmazione dell’effetto.
Ma che significa programmare l’arte?
In un’età post romantica, come poteva accadere fino alla metà del secolo scorso, ma per certi versi anche ai giorni nostri, parlare di arte programmata potrebbe addirittura sembrare un ossimoro: senza dover risalire alla notte dei tempi, è anche semplicemente un luogo comune quello che vede l’arte come opposta alla scienza, come espressione dell’irrazionale, dell’indicibile, della bellezza, chiamata a suscitare nell’osservatore una reazione emotiva, quasi un sentimento. Tutto questo però nell’arte programmata viene meno, anzi, viene apertamente contrastato e misconosciuto.
Nel periodo in cui l’arte programmata acquisisce un’identità e una definizione, a cavallo cioè degli anni ’60, sono numerose le manifestazioni di rifiuto e contrasto nei confronti dell’informale, dell’espressionismo astratto, e di tutte quelle correnti che mettevano l’io e la soggettività dell’artista al centro dell’opera. L’impeto dell’artista, romanticamente letto come ispirazione quasi mistica, viene ora sostituito da uno studio lucido e razionale dei meccanismi della visione, mentre la ricerca della reazione empatica dell’osservatore passa in secondo piano rispetto alla sua risposta percettiva. Programmare ciò che per eccellenza non si può programmare, l’arte, vuol dire quindi in questo caso costruire attentamente i presupposti per far accadere qualcosa all’opera, prevedendone possibili mutazioni e conformazioni.
Programmare il caso
Realizzare un’opera significa dunque studiare nel dettaglio i materiali, i meccanismi e le loro interazioni per ottenere differenti effetti visivi. Non è più solo l’opera unica, che si presenta sempre uguale nel tempo e nello spazio e invariata agli occhi dei diversi osservatori. Nel caso dell’arte programmata ogni osservatore può vedere l’opera in una sfumatura diversa, che varia anche in relazione al momento in cui viene guardata. Da un’opera iniziale possono derivare tante opere diverse, che non sono multipli o copie, ma varianti momentanee, provvisorie: una e tante opere allo stesso momento, dunque, o in momenti diversi.
Se però gli artisti, o meglio questi “pianificatori di forme”, per dirla con Umberto Eco, sono in grado di programmare il risultato del loro lavoro, e quindi l’aspetto dell’opera nelle sue variazioni, è pur vero che a concorrere nel risultato gioca un ruolo importante anche la casualità: non si tratta qui di creare “forme a caso”, ma di dare “delle forme al Caso” (U. Eco). Gli artisti tentano infatti di dare delle regole al caso, cioè di creare le condizioni perché il caso possa essere controllato, addirittura indotto. E’ la forma del disordine, per molti versi, è dare un senso alla probabilità, è prevedere una rosa di possibili risultati, nell’ambito dei quali lasciar agire la componente casuale.
Meccanica, arte e tecnologia
Sedersi a un tavolo ed elaborare i modi per far accadere qualcosa, come fanno gli artisti dell’arte programmata, è un po’ lo stesso approccio dello scienziato, che in laboratorio cerca di creare delle condizioni per dar vita a certi fenomeni e studiarne gli effetti. Ed è proprio questo approccio razionale e analitico il presupposto da cui prendono forma le creazioni di arte programmata, che non nascono certamente in un periodo storico casuale.
In Italia è il 1962 quando Bruno Munari collabora con Giorgio Soavi alla strategia pubblicitaria della ditta Olivetti, allora alle prese con le prime macchine di calcolo elettroniche e soprattutto con il cambiamento culturale che l’Olivetti sa di dover indurre per far nascere nel mercato la domanda di questo tipo di prodotto. Sotto la guida di Adriano Olivetti, l’azienda si fa sponsor e promotrice di una mostra fondamentale, Arte Programmata, che nel maggio 1962 viene allestita prima a Milano e poi in diverse altre città in Italia e nel mondo. Ad esporre sono i giovani artisti del Gruppo T milanese e del Gruppo N padovano, guidati da Munari che in quell’occasione conia la definizione di arte programmata (in una lettera del 1962 al Gruppo N, Munari parla di “arte programmata, nel senso che queste opere nascono da una precisa programmazione dalla quale prendono infiniti – o vari – aspetti”).
Sono quindi gli anni in cui le macchine fanno la loro comparsa sul mercato di massa, uscendo dai laboratori di ricerca per arrivare sugli scaffali dei negozi: sono macchine dal meccanismo affascinante, dalla meccanica studiata a tavolino, logica e razionale, elaborate per dare una risposta alla sollecitazione da parte dell’utente. Notevoli le analogie con l’approccio degli artisti dell’arte programmata, ma a differenziarli c’è un elemento sostanziale: se la macchina a una domanda reagisce con una risposta univoca e ben definita, l’opera d’arte varia a seconda dell’osservatore e del momento in cui questi la guarda. Non più quindi un percorso lineare, che porti certamente dal punto A al punto B, ma piuttosto una serie di possibilità, in cui dal punto A si può arrivare al B, al C oppure al D. A modificare le coordinate nel processo di elaborazione della risposta, un elemento che la macchina non può calcolare, il caso, che nel frangente coincide con l’osservatore, i suoi gesti, i suoi movimenti, la sua capacità percettiva: in altre parole con l’elemento umano.
Negli anni ’60 la macchina deve risolvere calcoli ed elaborare risultati, e il suo valore è tanto più alto quanto più precisa e univoca è la risposta fornita. L’arte coeva ragiona su questo, prende in prestito le premesse della meccanica, le fa proprie e riesce a mantenere l’elemento umano nel risultato del lavoro. E oggi? Oggi la frontiera delle nuove tecnologie è l’intelligenza artificiale, fatta di algoritmi e meccanismi per cui la macchina è tanto più avanzata quanto più in grado di elaborare risposte complesse e variabili… Umane! Forse, una volta di più, l’arte ha anticipato il proprio tempo. (Leggi anche -> Breve storia dell’Arte Cinetica, Programmata e Optical)