Continuamente in bilico tra dimensione biografica e autobiografica, Vittorio Mortarotti è un raffinato narratore per immagini. Come ha scritto Claudio Cravero, infatti, «per quanto i suoi lavori costituiscano le tessere di un grande affresco sociale dal taglio documentaristico e solo in apparenza analitico, vi è sempre la presenza dell’occhio dell’artista e la sua partecipazione alla scena». Una caratteristica che emerge in modo prepotente dai suoi lavori, sempre essenziali, ma mai scontati, in cui la memoria gioca un ruolo molto particolare, come ci spiega lui stesso in questa chiacchierata.
Nicola Maggi: Alla fine dello scorso anno hai tenuto la tua prima personale italiana, in cui hai presentato un progetto molto particolare: The First Day of Good Weather. Ce ne parli?
Vittorio Mortarotti: «Sì, è senza dubbio il lavoro che ha avuto la genesi più lunga. Un po’ di tempo fa ho trovato delle lettere che una ragazza giapponese aveva scritto a mio fratello nel 1999. Erano lettere d’amore, di un amore adolescenziale e acerbo. In quei mesi però mio fratello e mio padre sono morti in un incidente d’auto e Kaori ha continuato a scrivere biglietti e cartoline che sono rimasti inevitabilmente senza risposta. Sapevo da tempo che volevo fare un progetto a partire da quelle lettere, ma il modo mi è stato chiaro solo quando ho visto delle immagini delle città riemerse dallo tsunami del 2011 in Giappone. I resti, anche quelli minimi e quotidiani (le macchine, le foto, le lettere appunto…), mi sembravano gli stessi lasciati a terra da ogni tragedia privata o collettiva. Così ho deciso che sarei partito per il Giappone per cercare Kaori, ma che lo avrei fatto passando prima attraverso altre storie di perdita e ricostruzione. Quella dell’autobiografia nel mio caso è un pretesto per raccontare storie più ampie. Penso che sia un lavoro sull’assenza, ma anche sulle strategie di sopravvivenza, sulle forze che ognuno di noi mette in atto dopo un taglio nella propria vita. In fondo siamo tutti dei sopravvissuti a qualcosa, nostro malgrado, e, tra l’altro, è bello esserlo».
N.M.: Una cosa che mi ha colpito, scorrendo i tuoi vari lavori, è come cambia il tuo occhio fotografico a seconda delle situazioni. Più che fermare l’attimo tu lo traduci, modificando anche radicalmente il tuo “stile”…
V.M.: «Sì, dipende. Alcune volte, mentre preparo un lavoro, ho già delle immagini in testa che mi fanno decidere, banalmente, in che formato e con quale pellicola lavorerò. Altre volte, invece, il modo di lavorare dipende totalmente dalla reazione al luogo e alle persone che ho deciso di fotografare. Comunque sì, cambio spesso. Credo dipenda dal fatto che sento di voler cercare ancora molto e mi piace farlo e anche perché ho una gran paura di ripetermi. Mentre mi rattristerebbe non provare più quella bellissima sensazione, che è un misto di coraggio e paura di sbagliare quando si fa qualcosa di diverso e di nuovo. Comunque su una cosa invece penso ci sia una certa continuità: ho un approccio abbastanza diretto, mi piace essere “dentro” le cose, non essere contemplativo ma parte della scena».
N.M.: Nel tuo lavoro di traduzione un ruolo importante è giocato dalla memoria che però tu pieghi in modo molto particolare, facendola diventare quasi un nuovo racconto che sembra partire sempre dalla consapevolezza di quanto sia difficile, se non addirittura impossibile, ricordare il passato…
V.M.: «Hai ragione… faccio un uso della memoria che può sembrare ambiguo. E a dire il vero è un’ambiguità che mi piace o per lo meno riflette il mio rapporto con il passato. So benissimo che certi eventi sono successi e certe persone sono esistite, ma ora non ci sono più, se le cerco con gli occhi non ci sono più. Quello che faccio nel mio lavoro è andare a cercare delle linee, delle tracce di questi fantasmi e facendolo riscrivo nuove tracce e nuovi documenti. La memoria è più un pretesto per guardare al mondo di oggi. Per quanto, poi, schegge di documenti e di archivio possano finire nella mostre che faccio, ma quasi a sottolineare la loro impossibilità di essere nel presente. Il passato, in qualche modo, è ricostruzione. Lo so è ambiguo, ma l’avevo detto… Nella bella mostra “Il Piedistallo Vuoto” quest’inverno a Bologna ho trovato questa frase che spiega meglio quello che ho appena provato a dirti: “L’archeologia non ha la pretesa di riportare alla luce quello che c’è stato ma cerca di riaprire le rovine del passato all’imprevedibile, alla loro possibile metamorfosi in qualcos’altro”».
N.M.: Nei vari progetti che hai realizzato in questi anni, sono tanti i temi affrontati: dalla guerra di Sarajevo alla vita in un’ex città mineraria del Belgio. Come ti prepari alla loro realizzazione?
V.M.: «In proposito ripeto sempre una riga di René Char: “Agire da primitivo, prevedere da stratega”. Quando decido di fare un nuovo lavoro raccolgo idee, prendo appunti, leggo documenti, cerco connessioni possibili. Però poi una volta sul campo mi lascio andare il più possibile al caso e alla forza degli eventi. C’è da dire che in tutte le storie che affronto, dall’assedio di Sarajevo ai rifugiati della primavera araba, in fondo cerco qualcosa di mio, una parte di me specchiata in questi eventi. E’ un’altra ambiguità che mi piace: cerco di muovermi su un confine tra il documentario e la finzione, tra la biografia d’altri e l’autobiografia».
N.M.: A cosa stai lavorando in questo momento?
V.M.: «Proprio a partire dal progetto The First Day of Good Weather lavoro spesso in coppia con Anush Hamzehian che è un documentarista italo-iraniano oltre che a un grande amico. Con lui sto preparando una mostra che si terrà nel 2015 all’Arsenal di Metz e che avrà al centro un lavoro video-fotografico appena realizzato: Eden. Sempre con Anush sto scrivendo una serie di nuovi progetti tra cui un film documentario».
PER SAPERNE DI PIU’ -> www.vittoriomortarotti.com