Si può definire propriamente Hans Haacke un artista concettuale? Sì, ma nel senso più nobile del termine: le sue opere mirano scopertamente al bersaglio, evocando, nello stesso tempo, associazioni che trascendono il puro e semplice “messaggio” immediato. Il suo concettualismo non è fumoso, è anzi diretto, ma con una portata che supera la contingenza del momento, il che — soprattutto nel caso di opere dichiaratamente “impegnate” — è un caso abbastanza raro nel panorama dell’arte contemporanea.
Il grande regista e teorico del teatro Konstantin Stanislavskij operava una distinzione tra attuale e contemporaneo: «Attuale e contemporaneo — argomentava — appartengono entrambi al presente, ma l’attuale vi appartiene solo al momento in cui si presenta; il contemporaneo che si muove con il tempo, vi appartiene sempre. L’attuale accade, il contemporaneo vive nel presente: e perciò, a differenza dell’attuale, ha radici nel passato e tensione verso il futuro» (Franco Ruffini). Potrebbe essere un’ottima definizione del lavoro di Haacke, rispetto a molta arte militante così strettamente legata a precisi avvenimenti da essere, sulla lunga distanza, di corto respiro.
Nato nel 1936 a Köln, in Germania, ma già dagli anni Sessanta operante a New York, Haacke è stato man mano considerato dalla critica un antesignano dell’arte cinetica, della Techno Art, come pure della Earth Art — il che già rende l’idea della difficoltà di incasellarne l’opera in una ben definita corrente. Dopo gli esordi come scultore, determinante era stata la sua adesione, ancora nei primi anni di attività in Germania, all’esperienza del gruppo Zero, la cui poetica di riarmonizzazione tra uomo e natura, nonché l’uso di materiali non tradizionali assieme a effetti cinetici e azioni performative, lasceranno il segno nell’attività dell’artista per tutti gli anni Sessanta. Haacke concepì quindi opere strettamente correlate a spazi architettonici e ambientali, talvolta sotto forma di azioni compiute in ambienti urbani o naturali, talvolta con il diretto coinvolgimento degli spettatori. Sono di questo periodo i cosiddetti Ephemeral Objects, costituiti da elementi naturali destinati a deperire.
Il potenziale politico latente nelle opere degli anni Sessanta sfociò, all’inizio del decennio successivo, nella pratica, da parte dell’artista, di realizzare statistiche collazionando informazioni socioeconomiche e opinioni politiche dei visitatori delle sue mostre, tramite veri e propri sondaggi, visualizzando poi i dati in mappe, schemi e grafici. Ma furono le grandi installazioni multimediali che iniziarono a comparire nel corso degli anni Settanta a portare a maturazione il discorso estetico-politico di Haacke, come vedremo.
All connected, la retrospettiva attualmente in corso (fino al 26 gennaio 2020) al New Museum di New York, curata da Gary Carrion-Murayari e Massimiliano Gioni, giunge a trentatré anni di distanza da un’altra retrospettiva dedicata all’artista tedesco dalla medesima istituzione, che ha costantemente seguito l’opera di Haacke.
La mostra si sviluppa su quattro piani del museo. Al primo si viene accolti da Wide White Flow (1967/2008), un grande velo di seta animato dall’aria mossa da ventilatori. È un esempio dei lavori sui quattro Elementi e sulle loro trasformazioni che ebbe larga importanza nella produzione di Haacke degli anni Sessanta: l’acqua che evapora in Large Condensation Cube (1963-67) o si solidifica in ghiaccio (Schwimmender Eisring, 1970); la terra su cui progressivamente cresce erba (Grass Grows, 1967-69); la fiamma “mobile” creata da cortocircuiti di un sistema elettrico (High Voltage Discharge Traveling, 1968)…
Al piano successivo troviamo opere politiche e di denuncia. Si parte dalla significativa installazione State of the Union del 2005 in cui, di fronte a un enorme drappo — che riproduce la sezione della bandiera statunitense con le 50 stelle — strappato a metà, una telescrivente stampa in tempo reale i lanci d’agenzia su quel che sta accadendo nel mondo. Tra le altre opere presenti, vi è anche la celebre installazione Oil Painting: Homage to Marcel Broodthaers (1982), atto di accusa contro la corsa al riarmo dell’era reaganiana.
Molti dei lavori di Haacke prendono di mira le connessioni (e connivenze) tra il mondo della finanza e delle grandi corporation e l’arte, vista come terreno di investimento al di là delle dichiarazioni mecenatesche e filantropiche, nonché gli stretti legami tra le istituzioni museali e i loro finanziatori, talvolta personaggi eticamente compromessi. In On Social Grease (1975) sei grandi targhe riportano frasi tratte da discorsi e scritti di importanti figure della finanza riguardo all’importanza dell’arte («Forse il più importante motivo dell’aumentato interesse per le arti da parte delle compagnie internazionali risiede nella quasi illimitata diversità di progetti resi possibili. Questi progetti possono essere costruiti su misura per specifici obiettivi d’affari della compagnia e rendere dividendi ben al di là degli investimenti richiesti»: C. Douglas Dillon, investitore finanziario, Presidente e poi chairman del Metropolitan Museum of Art; «L’appoggio della EXXON alle arti sostiene l’arte come lubrificante sociale. E se gli affari devono continuare nelle grandi città, c’è bisogno di un ambiente maggiormente lubrificato»: Robert Kingsley, manager della Exxon, fondatore e chairman dell’Arts and Business Council di New York).
Le azioni artistico-politiche di Haacke sono passate tutt’altro che ignorate nel corso degli anni. Un’altra delle sue opere più celebri, Shapolsky et al. Manhattan Real Estate Holdings, A Real-Time Social System, as of May 1, 1971, documentò minuziosamente — con le fotografie di tutte le proprietà coinvolte e la copia di decine di atti pubblici — il meccanismo tramite il quale una holding immobiliare newyorkese, costituita nominalmente di circa settanta compagnie tutte in realtà riconducibili alla famiglia Shapolsky, effettuava transazioni fasulle di vendita, acquisto e ipoteche, ricavandone benefici fiscali.
Il lavoro era stato concepito per una personale che avrebbe dovuto tenersi al Solomon R. Guggenheim Museum appunto nel 1971: il direttore dell’istituzione chiese il ritiro dell’opera, definendola «inappropriata» e, al rifiuto di Haacke, la mostra fu cancellata sei settimane prima dell’apertura; il curatore Edward F. Fry fu licenziato per il sostegno dato a Haacke. In molti sospettarono legami tra il museo e la holding di Shapolsky, e più di cento artisti si schierarono con Haacke impegnandosi a non esporre più a loro volta al Guggenheim finché non fosse stato abbandonato qualsiasi atteggiamento censorio da parte dell’istituzione.
Il quadro fortemente satirico Taking Stock (unfinished) del 1983-84 portò invece nel 1988, dopo la sua esposizione alla Tate Gallery di Londra, alle dimissioni di Charles Saatchi da membro dei Patrons of New Art della Tate, nonché dal board della Whitechapel. Haacke aveva realizzato un ritratto in stile vittoriano-iperrealista di Margaret Thatcher seduta di fronte alla scultura del 1890 Pandora (!) di Harry Bates, appartenente alla collezione della Tate, infarcendo il quadro di allusioni a Charles Saatchi, all’epoca dominatore del sistema dell’arte inglese nonché ideatore — con la sua agenzia pubblicitaria — delle campagne politiche della “Lady di Ferro” come pure di quelle del Premier sudafricano P. W. Botha.
Un’altra opera legata all’Inghilterra si trova al quarto piano del museo: il grande Gift Horse del 2014, commissionato dal London’s Fourth Plinth Program per Trafalgar Square. Il quarto plinto della piazza, rimasto vuoto, sarebbe stato destinato a una statua equestre del re Guglielmo IV, mai realizzata: Haacke ha concepito lo scheletro di un cavallo, realizzato in bronzo e di dimensioni monumentali, con, applicato attorno a una zampa a mo’ di fiocco, un display LED su cui scorrono in tempo reale le quotazioni della Borsa locale, in questo caso il New York Stock Exchange.
La forza concettuale dei lavori di Haacke risiede anche nel loro equilibrio estetico, spesso una ricerca di stilizzazione che rifugge dal “marchio di fabbrica”, utilizzando al contrario di volta in volta i media ritenuti appropriati, non esclusa la pittura “classica”. Il bersaglio politico del momento è sempre visto sullo sfondo di un discorso sul Potere e i suoi meccanismi. Può sembrare contraddittorio il fatto che l’artista continui ad esporre in quelle istituzioni da lui stesso contestate, ma — al di là della scelta difficile ma efficace di combattere un sistema dall’interno (e, anche se pecunia non olet, certo non rendendosi graditi ad alcuni potenti collezionisti) — non è un caso che siano realtà un po’ più indipendenti ed impegnate, come il New Museum, a seguirne il lavoro.
La mostra si conclude al quinto piano, dove sono esposti esempi dei sondaggi statistici cui, come si diceva, sono invitati a partecipare attivamente i visitatori delle mostre di Haacke, talvolta messi di fronte a domande provocatorie. E, naturalmente, si può collaborare a un sondaggio legato all’esposizione in corso.