La scelta dei materiali da utilizzare per il restauro di un’opera d’arte non è affatto casuale ma poggia su un fondamento teorico inspirato ai principi fondamentali del restauro che si sono delineati nella storia. Ovvero la riconoscibilità, la reversibilità e la compatibilità, il tutto nell’ottica di un minimo intervento.
Per riconoscibilità di un intervento si intende il principio secondo cui qualsiasi parte aggiunta durante un restauro (ad esempio un’integrazione pittorica) deve sempre essere distinguibile da quelle originali, senza però causare un disturbo visivo d’insieme dell’opera, permettendo così allo spettatore e allo studioso/restauratore del futuro di caratterizzare tale elemento come risultato di un intervento di restauro e non originale. Se così non fosse, le parti aggiunte potrebbero essere confuse a quelle originali e l’opera autentica potrebbe essere letta erroneamente.
Ciò può avvenire da un punto di vista estetico, ad esempio scegliendo di integrare con il metodo del rigatino (una tecnica messa a punto a Roma dall’Istituto Centrale per il Restauro negli anni ’40, consistente nel colmare le lacune di un manufatto artistico attraverso una trama rigata) o da un punto di vista materico, ad esempio scegliendo materiali e vernici di finitura sintetiche diverse da quelle di origine naturale usate originariamente dall’artista.
Per reversibilità si intende invece il principio secondo cui qualsiasi intervento di restauro deve poter essere rimosso senza danneggiare l’opera originale. Questa considerazione è intimamente legata, ovviamente, alla scelta dei materiali di restauro che, anche se buoni al momento della loro applicazione, potrebbero col tempo alterarsi perdendo le loro funzioni o addirittura danneggiando l’opera originale. Ciò permette, inoltre, di lasciare aperta la possibilità di utilizzare in futuro nuovi prodotti, magari migliori e di nuova generazione che possano così rimpiazzare quelli utilizzati nel precedente restauro senza danneggiare l’opera durante la loro sostituzione.
E infine il terzo fondamento: la compatibilità. Tale principio impone che i materiali impiegati nel restauro non debbano danneggiare i materiali originali interagendo negativamente con essi, magari alterandoli nell’aspetto o nella funzionalità. Tra gli aspetti da considerare attentamente nella scelta di un materiale compatibile, c’è ad esempio la sua reazione con l’ambiente esterno rispetto ai materiali originali. Ci si dovrà dunque chiedere: i materiali di restauro impiegati reagiscono cromaticamente alla luce nello stesso modo? Invecchiano più velocemente o più lentamente? Come si “muovono” al cambio di temperatura e umidità? Interrogandosi su queste e altre problematiche, il restauratore sarà in grado di scegliere un prodotto che si comporti in maniera il più simile possibile all’originale, evitando così il prodursi di stress tra le componenti o la possibile comparsa nel tempo di fastidiose differenze estetiche.
Tutti questi principi vanno poi messi in atto avendo bene a mente il più generale principio secondo cui qualsiasi intervento di restauro di un’opera deve essere fatto nell’ottica di un “minimo intervento”. Questa prassi è volta, infatti, a porre un limite – pur, nella pratica, talvolta complesso da rispettare – al restauro, ponendo in essere azioni e interventi solo se e nei limiti di quanto strettamente necessario.
Scegliere di fermarsi e di non agire è spesso infatti una buona scelta, innanzitutto perché qualsiasi intervento di restauro sottopone sempre l’opera a notevoli stress e inoltre perché sono pochissimi i materiali e le tecniche di restauro che danno sufficienti garanzie di reversibilità e inalterabilità nel tempo e che sono compatibili con i materiali originali.
Per concludere, si può dire che è solo riducendo al minimo gli interventi su un’opera d’arte che si garantisce il rispetto di tutte quelle informazioni storiche ed estetiche, veicolate dalla materia originale dell’opera, vero fulcro dell’attenzione dello spettatore.