Da ragazzino aveva una bellissima raccolta di figurine di calciatori, oggi una delle più significative collezioni di arte contemporanea del nostro Paese. Giorgio Fasol ama definirsi “uno dei tanti” ma basta parlarci pochi minuti per capire che non è così. Un’avventura, quella del collezionista veronese, iniziata nel lontano 1958, subito dopo il diploma, con il tentativo, ambizioso, di comprare un’opera di Giorgio Morandi con i risparmi dell’estate: 365mila lire quando, agiull’epoca, un lavoro dell’artista bolognese si aggirava sul milione e mezzo di lire. Poi, tante visite in galleria, l’incontro con l’artista e editore Renzo Sommaruga e con il critico Alessandro Monzambani, assistente di Giuseppe Marchiori, che assieme lo introducono nel mondo dell’arte contemporanea fino all’incontro fatale con l’opera di Lucio Fontana. «Sommaruga – mi racconta Fasol durante una pausa ad Artissima – stava lavorando ad un libro con delle litografie di Giuseppe Ajmone e così un giorno l’ho accompagnato nello studio del pittore milanese che ci fece attendere tre quarti d’ora perché doveva finire un quadro. Poi viene fuori dallo studio senza dire buongiorno, buonasera o scusate, con in mano un foglio A4: “Guarda qua cosa ho preso, guarda qua cosa ho preso. E’ venuto stamattina da me un giovane e con 30mila lire ho preso un Fontana”. E ci mostra il foglio con un ovale fatto con la penna biro e tre buchi e sotto la firma di Fontana… un colpo al cuore».
Nicola Maggi: e poi…
Giorgio Fasol: «A quel punto volevo assolutamente scoprire chi era Fontana e con Monzambani andavamo in giro tra le gallerie fino a quando, nel 1969, la Galleria Cattaneo di Brescia organizza una mostra bellissima. Io e mia moglie, perché nel frattempo mi ero sposato, andiamo lì e vediamo cinque Fine di Dio, nature morte e un piccolo dipinto, il più piccolo di tutti, che costava 3 milioni. Io avevo un milione, ma la voglia di prendere un Fontana era tale che ho detto al gallerista: “Senti, io ti lascio il Fontana ma è mio, ti do il milione e te lo pagherò via via finché l’avrò saldato completamente e me lo consegnerai”. E lì è cominciata la mia avventura nel mondo dell’arte contemporanea».
N.M.: Le guide al collezionismo insegnano che una collezione deve avere un progetto preciso, in cui ogni opera, di fatto, rappresenta un tassello di un disegno più ampio. Si riconosce in questa interpretazione del collezionismo?
G.F.: «No. Per me sono solo colpi di fulmine. Ma questa è una mia particolarità, un limite se vuole. Per me l’acquisto di un’opera è un atto d’amore. Nel senso che è un colpo di fulmine e mi avvalgo sempre della massima del mio amico, che oggi non c’è più, Giuseppe Panza di Biumo che diceva: se tu ami l’arte, l’arte ama te; se tu vuoi sfruttare l’arte, l’arte sfrutta te. Ricordiamocelo sempre, se uno vuol fare un investimento finanziario è meglio che lo faccia in Bot. E’ mille volte meglio per tutti e, in primo luogo, per il mondo dell’arte, perché le vendite fatte con questa motivazione portano solo ad inficiare negativamente il mondo dell’arte».
N.M.: Quando capisce che un’opera deve essere sua?
G.F.: «Nel momento in cui la vedo»
N.M.: Una cosa tutta di pancia…
G.F.: «Purtroppo, tremenda. Quando c’è la scintilla, soldi o non soldi… è una droga in fondo. Io ci metto un secondo a vedere una mostra. E’ pacifico che dietro c’è tutta una conoscenza, una preparazione. Non posso dire: prendo questo solo perché mi piace. Avrò letto qualcosa, mi sarò informato, ma non leggo neanche un libro intero. Quando ho scorso le prime tre pagine capisco se vale la pena di proseguire o è meglio smettere. Ad esempio, quando ho preso Maurizio Cattelan, nel Novanta, ho ascoltato tutti i discorsi che fanno sempre i galleristi ma non li ho lasciati neanche finire di parlare che l’avevo già comprato… non so se rendo l’idea. Lo stesso con Tino Sehgal. Nel 2004 sono andato con mia moglie e due amici collezionisti, molto bravi, alla mostra organizzata dalla Galleria Massimo Minini e al ritorno loro tre hanno sparato a zero sul suo lavoro. Io ho taciuto tutto il tempo. Poi, prima di scendere di macchina, davanti alla loro porta di casa, questi amici mi chiedono: “Tu Giorgio cosa dici?”. “Mah – faccio – avete detto tutto voi…”. A quel punto mio moglie mi fa: “Allora l’hai preso…”. Però anche lì cosa era scattato. Nella mia interpretazione, con quel lavoro Seghal era andato oltre Marcel Duchamp. Perché Duchamp ha messo l’orinatoio e lui non ha messo niente, solo l’idea. E’ un mix di elementi che determinano queste scelte: l’istinto, lo studio, l’esperienza di vedere tante cose e, forse, anche un pizzico di fortuna».
N.M.: Dagli anni Ottanta lei ha un interesse particolare per talenti emergenti. Cosa cerca nei giovani artisti?
G.F.: «Le racconto un fatto. Un giovane artista, che io ritenevo bravo, le prime due volte che mi trova passa mezz’ora a raccontarmi la sua opera. Alla terza l’ho stoppato e gli ho detto: tu me lo devi dire tutto in tre minuti, perché sennò sostituisci le tue parole alla tua opera. E’ l’opera che deve parlare a me e a tutti gli altri».
N.M.: In Italia vede qualche giovane che promette bene?
G.F.: «L’hanno scorso ho acquistato l’opera di una ragazza, Giulia Cenci, che non aveva mai fatto una mostra personale; ho detto alla galleria che oggi la segue (lo SpazioA di Pistoia, ndr) che mi sembrava valida e così le hanno fatto una mostra che ho acquistato in blocco: un’installazione e due fotografie. E quest’anno è qui ad Artissima nella sezione Present Future. È ancora acerba ma ha una grinta tale che, secondo me, potrebbe riuscire. Sono quasi trent’anni che seguo gli artisti giovanissimi e mi piace “sculacciarli” un po’. Le prime domande che gli faccio sono: “Sai l’inglese? Viaggi? Sai usare il computer?”. Perché un artista oggi non può più stare nella caverna del suo studio e stop. L’altra cosa che gli dico sempre è: “Ricordati che hai fatto un gradino, non credere di essere già al primo piano, prova a pensare quanti ne hai ancora da fare per arrivare in cima al grattacielo”. E poi li sollecito perché vadano all’estero».
N.M.: Dove ama comprare le sue opere?
G.F.: «Domanda molto pertinente. Io non ho mai acquistato un’opera direttamente dall’artista perché intendo salvaguardare il sistema dell’arte che è fatto da cinque ingranaggi: l’artista, prima di tutto, la galleria, il critico, l’ente e il collezionista. Se ne salta uno, in questo caso la galleria, non solo danneggio anche l’artista, perché non capisce quanto sia determinante per lui avere una galleria, ma anche il sottoscritto che compra. Si potrebbero fare tanti discorsi filosofici su questo ma, a me collezionista, chi mi fa la prima cernita? In Italia ci sono circa 50mila persone che si dichiarano artisti. Di validi ce ne saranno 250 e di questi ne rimarranno 3 o 4. Lo dico nel massimo rispetto di tutti e 50 mila ma ci vuole qualcuno che faccia una prima selezione in questo gruppo immenso. Altrimenti dovrei fare una visita in tutti gli studi e sarebbe una follia. Per questo all’artista che afferma di non volere una galleria rispondo: “Dimmi, sinceramente, che non c’è la galleria che vuole te”. Lo so, non sono molto tenero, ma devono capire che quello dell’artista è un mestiere difficilissimo che va fatto in modo professionale».
N.M.: Nel nostro mercato le vendite si concludono spesso in modo molto informale senza l’utilizzo di contratti veri e propri. Quando compra un’opera quali documenti richiede al gallerista?
G.F.: «Insieme all’opera deve essere spedito il contratto con tutte le condizioni, l’autentica, i pagamenti e, soprattutto, le fotografie ad alta risoluzione. Oltre a questo, l’opera deve essere spedita con un imballo adeguato con sopra il numero dei colli e la scheda dell’opera che consente di identificarne subito il contenuto, specie se la metto in magazzino. Personalmente, poi, richiedo sempre all’artista una sua dichiarazione irrevocabile in cui afferma che posso pubblicare, anche via web, le sue opere e utilizzarle per delle mostre. E’ una cosa che va richiesta all’artista e non al gallerista perché il rapporto tra i due potrebbe finire. L’importanza di questo documento l’ho scoperta nel 2010 quando stavo organizzando una mostra di 70 giovani artisti al MART. In quell’occasione le gallerie di due artisti hanno tentato di impedirmi di esporre le loro opere che facevano parte della mia collezione».
N.M.: Che consigli darebbe ad un aspirante collezionista?
G.F.: «Il collezionista deve essere consapevole e, per questo, uno deve acquisire informazioni. L’intuito va bene, ma non si può acquistare un’opera solo perché piace, si deve dotare di un bagaglio di conoscenza che porti alla scelta oculata. Nel senso che un collezionista deve conoscere passato per agire nel presente».
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