Il grande storico olandese Johan Huizinga ebbe l’intuizione alla base del suo capolavoro, Autunno del Medioevo, visitando la mostra sui cosiddetti primitivi fiamminghi organizzata a Bruges nel 1902.
I nomi più in vista tra quelli esposti erano di maestri del calibro di Jan Van Eyck e di suo fratello Hubert, di Hans Memling e di Rogier Van der Weyden.
Qui abbiamo cercato di prendere in considerazione il XIV e il XV secolo non come annuncio del Rinascimento, bensì come tramonto del Medioevo, la civiltà medioevale nel suo ultimo respiro, come un albero dai frutti troppo maturi, completamente cresciuto e sviluppato. Argomento di queste pagine è il moltiplicarsi di vecchie, obbligate concezioni sul nucleo vitale del pensiero, e l’inaridirsi e l’irrigidirsi di una ricca civiltà (Così nella prefazione).
Il Trecento e il Quattrocento, dunque, come periodi di crisi rigeneratrice a cavallo tra due evi più ampi, quello di mezzo e quello moderno.
C’è, però, una evidente disparità, secondo Huizinga, tra il quadro violento e oscuro di quei secoli tramandatoci dalla letteratura e l’immagine alta, dignitosa e pacifica giunta a noi, invece, attraverso le opere di pittura. L’immagine che abbiamo di tutte le civiltà del passato è diventata più serena da quando ci siamo abituati a guardare di più e leggere di meno, rendendo la nostra sensibilità storica sempre più visiva. Perché le arti figurative, dalle quali attingiamo soprattutto la visione del passato, non si lamentano (cap.XVIII).
La tesi di Huizinga è vera soprattutto per la pittura fiamminga, che da quella italiana si differenziò sensibilmente utilizzando per prima la tecnica ad olio. Basti considerare che è Jan Van Eyck quel Giovanni di Bruggia che secondo Vasari per primo in Europa passò dalla tempera all’olio, che fu una bellissima invenzione et una gran commodità.
Ricette per usare il legante oleoso erano, a dire il vero, già presenti in Cennini e, ancor prima, in Teofilo. Come sottolinea Philip Ball in Colore. Una biografia, Van Eyck, per primo comprese le potenzialità di questo medium e ne corresse i limiti che ne avevano impedito un uso diffuso nei secoli precedenti.
Van Eyck, introducendo la tecnica ad olio, diede il via a una rivoluzione che modificò l’idea stessa e le potenzialità della figurazione. Il passaggio, naturalmente fu graduale: lo stesso fiammingo utilizzava ancora la tempera all’uovo per le campiture di fondo, chiare e brillanti, sovrapponendovi velature a olio per creare passaggi tonali, sfumature, chiaroscuri che gli permisero di raggiungere livelli di realismo pittorico notevoli.
Su questi presupposti si fonda l’arte di descrivere – come l’ha definita in un suo celebre saggio la storica Svetlana Alpers – della grande pittura fiammingo-olandese che arriverà al suo apice nel Seicento.
Sempre Philip Ball nota che cambiare il mezzo fa cambiare inevitabilmente la cassetta dei colori. Gli oli, come qualsiasi altro agglutinante, non trasportano i pigmenti crudi senza modificarne l’aspetto.
Come abbiamo visto nel recente articolo sul tra colori ad olio e colori acrilici a metà del Novecento, il pigmento non si solubilizza sciogliendosi nel legante ma rimane in sospensione, completamente avvolto dal medium oleoso che gli conferirà caratteristiche ottiche peculiari. In sostanza, lo stesso pigmento in due leganti diversi, come tempera – cioè rosso d’uovo – e olio, avrà una tonalità diversa.
Così, ad esempio, mentre il lapislazzuli appare nel blu vibrante tipico dei manti della Vergine italiani eseguiti nelle tavole a tempera, nell’olio è, invece, più scuro, spento, meno impattante. Allo stesso modo il rosso vermiglione, costituito dal cinabro, minerale a base di mercurio, perde un po’ della sua caratteristica luminosità immerso nell’olio, e infatti venne utilizzato, dai fiamminghi, accostato a lacche semitrasparenti di origine animale o vegetale.
I fiamminghi – e più in generale gli olandesi – rinnovarono, quindi, l’intera palette di pigmenti usati in pittura. Ed essendo abili mercanti, cominciarono a esportare non solo i propri dipinti ad olio, ma anche i nuovi materiali da mesticheria. Va da sé che una delle prime città italiane a ricevere la rivoluzione dell’olio sia stata Venezia, grande bazaar commerciale d’Europa.
Fu un veneziano d’adozione, Antonello da Messina, il primo pittore italiano ad usare la tecnica ad olio. Ancora Vasari, infatti, ci dice che questa arte condusse poi in Italia Antonello da Messina che molti anni consumò in Fiandra, e nel tornarsi di qua da’ monti, fermatosi ad abitare in Venezia, la insegnò ad alcuni amici. Uno de’ quali fu Domenico Veniziano che la condusse poi in Firenze, quando dipinse a olio la capella de’ Portinari in S. Maria Nuova, dove la imparò Andrea dal Castagno, che la insegnò agli altri maestri, con i quali si andò ampliando l’arte et acquistando sino a Pietro Perugino, a Lionardo da Vinci et a Rafaello da Urbino, talmente che ella s’è ridotta a quella bellezza che gli artefici nostri mercé loro l’hanno acquistata.
La tecnica ad olio adottata dagli italiani, in un primo momento, era una via di mezzo con la tempera, denominata tempera grassa, in cui a una parte di rosso d’uovo corrisponde una parte di olio, avendo così una pittura più fluida per creare velature e chiaroscuri. A tempera grassa sono eseguite, per esempio, le due tele pagane della Nascita di Venere o della Primavera di Sandro Botticelli.
Dall’autunno alla primavera della pittura quindi, con l’olio che nel Cinquecento prenderà definitivamente il primato, scalzando e facendo scomparire la tecnica a tempera.