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La tecnica di Rembrandt, un manuale di pittura

del

La tecnica di Rembrandt van Rijn – campione della Gouden eeuw, l’epoca d’oro della pittura olandese – è una delle più interessanti fonti di studio per artisti, restauratori e cultori della materia. Già Max Doerner, nel suo celebre saggio sulla tecnica pittorica, ne aveva intuito le potenzialità didattiche, dedicando al maestro olandese un capitolo intero.

Uno studio più recente, molto interessante e approfondito, sull’argomento è quello dell’equipe della National Gallery guidata da David Bomford, pubblicato per la serie Art in the Making

Ne emerge quanto la varietà di effetti raggiunti dall’impasto pittorico delle opere del maestro di Leida, sia incredibile se si pensa alla scelta di pigmenti che egli più comunemente usava, spesso e volentieri tutt’altro che preziosi e rari.

Ma quali erano i passaggi che Rembrandt operava per cominciare a dipingere? Come tutti i pittori della sua epoca, anche l’olandese era solito applicare come preparazione per la superficie pittorica un’imprimitura – primuersel nella sua lingua – dai toni bruno scuro o chiaro, oppure tendente al grigio. 

Le preparazioni di Rembrandt contengono solitamente una generosa quantità di bianco di piombo la famosa biacca di cui già si è parlato su queste pagine – mescolato con pigmenti terrosi.

Rembrandt dipingeva sia su tela che su tavola, quest’ultima generalmente di quercia, scelta comune nei paesi del nord-Europa. 

Sulla tavola lignea, applicava preventivamente uno strato molto sottile di calce con la funzione di riempire le porosità del legno. Su questo fondo era poi stesa la primuersel sopra citata.

Quando dipingeva su tela, invece, a uno strato a base di pigmenti terrosi mischiati a carbonato di calcio o silice ne seguiva un secondo costituito da una mescolanza di bianco di piombo e una piccola parte di pigmenti colorati.

La tavolozza di Rembrandt, come detto, è sorprendente per la modestia nella scelta dei colori, sia per le poche tonalità utilizzate, sia per il basso valore economico dei pigmenti scelti. E questo nonostante il mercato di Leida, fiorente polo tessile, offrisse una gamma pressoché illimitata di tinte

Nella tavolozza di Rembrandt, come detto, la biacca assume un ruolo principe, in quanto utilizzata sia per la preparazione della superficie pittorica sia per modellare l’impasto, soprattutto delle zone luminose dei volti.

Oltre la biacca, è rilevante la presenza di un pigmento che di essa è figlio, il giallo massicot, un pigmento a base di piombo e stagno mutuato probabilmente dalla lavorazione del vetro.

Pigmenti chiave nella tavolozza dell’olandese sono, poi, le terre, scelte in grande varietà e mescolate con biacca e carbonato di calcio per creare impasti utilizzati soprattutto negli incarnati e nei tessuti. 

Una pratica di Rembrandt per andare al risparmio era, poi, l’alterazione di pigmenti costosi tagliati con altri di minor pregio. È il caso del vermiglione, pigmento rosso a base di solfuro di mercurio, quindi molto caro, adulterato con minio di piombo di costo inferiore.

Lo studio di Bomford e della sua équipe, si fonda principalmente sull’analisi de Il festino di Baldassarre, capolavoro della National Gallery con datazione ipotizzata intorno al 1636. In questo dipinto, la preparazione consiste in due strati differenti: un primo strato composto di terra rossa a cui è sovrapposto un secondo strato di una miscela di bianco di piombo e terre di una tonalità grigio-fulvo. Al di sopra, si trova uno strato intermedio a base di terre d’ombra molto scure e lacche, con cui sono creati gli abbozzi della composizione.

Questo dipinto in particolare spicca per la luminosità degli abiti e dei gioielli dorati, molto sfarzosi, resa con l’utilizzo della biacca e del giallo di piombo-stagno, mischiati con lacche, terre, vermiglione e nero, a formare un impasto corposo, tridimensionale e vario, tratto distintivo della pittura di Rembrandt, come detto in apertura all’articolo.

Rembrandt e Vermeer, pur con trent’anni di differenza, erano entrambi membri della Gilda di San Luca, potente corporazione di pittori dell’Olanda seicentesca. Con una tavolozza molto simile, raggiunsero risultati profondamente diversi, entrambi sfaccettature del vertice raggiunto in quel secolo dalla pittura olandese, l’unica scuola a poter veramente competere con quella italiana.

Francesco Niboli
Francesco Niboli
Restauratore di dipinti antichi e contemporanei, ha intrapreso un percorso di approfondimento del design grafico e dell’arte del ‘900 italiano collaborando con Fondazione Cirulli di Bologna. Ha partecipato alla scrittura del libro "Milano, la città che disegna", catalogo del neonato Circuito lombardo Musei Design. Attualmente collabora come grafico con la casa editrice indipendente Sartoria Utopia.

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