Una coincidenza astrale che ha del prodigioso, ha fatto sì che l’uomo apprendesse sin dall’antichità un metodo in grado di produrre il colore bianco con caratteristiche pressoché perfette. Ci riferiamo alla biacca, o, per parlare con linguaggio chimico, del carbonato basico di piombo.
Il metodo è tanto semplice quanto efficace, e già forse dal III millennio a.C. l’uomo fu in grado di replicarlo. In sostanza, il piombo metallico è sottoposto a vapori di acido acetico per ottenere acetato di piombo, quindi sotto l’azione di anidride carbonica, trasformato in carbonato di piombo, che, idratato, diviene carbonato basico di piombo. Più semplice a farsi che a dirsi.
Una semplicità tale che la procedura è rimasta sostanzialmente invariata nel corso dei millenni, e soltanto all’alba di quello attuale e per motivi comunque non dovuti alla qualità del pigmento in sé, si è preferito pian piano abbandonarlo.
Perché si è abbandonata la biacca? Semplice: il piombo è un materiale estremamente tossico e l’utilizzo prolungato della biacca fa ammalare. Gli alchimisti – e spesso gli artisti si concedevano all’alchimia, come insegnano le vita del Parmigianino e del Rosso Fiorentino – associavano questo metallo al dio Saturno.
Ancora oggi, si chiamano saturnismo le malattie provocate dall’avvelenamento da piombo. Gli influssi negativi del metallo di Saturno potrebbero anche essere la causa dell’umore melanconico di artisti come Annibale Carracci, Hugo van der Goes e il Rosso Fiorentino stesso. C’è un bellissimo libro, Nati sotto Saturno, di Rudolf Wittkower riguardo ai “saturnisti”, lettura consigliatissima.
La lavorazione del piombo per la produzione della biacca faceva però ammalare anche gli operai, motivo per cui, dal Settecento in poi, si cercarono alternative che gradualmente sostituiranno il piombo, fino ad arrivare al moderno bianco di Titanio, pigmento che non ha nemmeno cento anni di vita, ma che sembra incarnare tutte le migliori qualità della biacca, senza l’inconveniente della tossicità.
Nell’arco di circa un millennio, ovvero nell’epoca della pittura bizantina, il bianco ha avuto lo scopo di rappresentare i riflessi sui corpi prodotti dalla vera luce divina, rappresentata dai fondi oro. Col Rinascimento italiano, in cui il fondo oro tende gradualmente a scomparire, il bianco diventa esso stesso rappresentazione della luce che dà volume ai corpi.
Il commento di Philip Ball è difficile immaginare una storia dell’arte senza la biacca, è condivisibile: come si potrebbe immaginare la pittura dei secoli d’oro che vanno dal XVI al XVIII, senza il suo contributo? Come immaginare i drammatici contrasti di Caravaggio? Come la luminosità che dà le forme ai volumi materici di Rembrandt?
Senza scordare che la biacca è stata a lungo la base della cosmetica, e si pensi ai volti settecenteschi pitturati di bianco.
E non finisce qui. Attraverso mutamenti chimico-fisici provocati da un’operazione elementare come la calcinazione della biacca sul fuoco, i pittori del passato scoprirono l’esistenza di una gamma di pigmenti derivati che coprivano diverse tinte che andavano dal giallo al rosso: pigmenti come il massicot o il minio, molto usati soprattutto nel medioevo, mantengono molte delle buone caratteristiche della biacca.
Se a questi composti venivano miscelati altri composti come stagno o antimonio, nascevano pigmenti come il Giallolino e il giallo di Napoli.
Quando si parla di Giallolino, si parla di un bel grattacapo che ha interessato molti studiosi delle tecniche artistiche già nell’Ottocento.
Una delle prime a dipanare la matassa riguardo a cosa gli Old Masters intendessero chiamare con Giallolino è stata la signora inglese Mary Philadelphia Merrifield.
Nella sua raccolta Original Treatises, Merrifield ripercorre le fonti della letteratura artistica giungendo a conclusioni notevoli e fondamentali, considerando che la signora, alfiere della rispettabilità d’epoca vittoriana, svolgeva le sue ricerche come hobby. Ah, gli inglesi…
Merrifield trova che già il monaco tedesco d’epoca altomedievale Teofilo descrive, nella sua Schedula, la preparazione di un colore giallo a base di piombo, ma è il Cennini la prima fonte a individuare questo composto col nome di Giallolino.
In un importante manoscritto quattrocentesco reperito presso il convento di San Salvatore a Bologna, poi, Merrifield trovò descritte addirittura due ricette per la preparazione di un pigmento che indicano come fare vetrio giallo calcinando una miscela di piombo e stagno, e come preparare un pigmento adatto a dipingere aggiungendo alla miscela di piombo e stagno del minio e della rena de valdarno e calcinare il tutto.
L’importanza della ritrovata ricetta bolognese venne corroborata un secolo dopo da Hermann Kühn del Dörner Institute di Monaco. Abbiamo avuto modo, in queste pagine, di sottolineare l’importanza di questo istituto tedesco nella ricerca sul colore.
In ogni caso, esattamente come mamma biacca, il Giallolino di piombo e stagno la fece da padrone nella pittura dei secoli d’oro del Seicento. Avete presente gli splendidi broccati dipinti da Rembrandt, o i tessuti in avvolgente giallo pallido di Vermeer? Sono merito del Giallolino, magia del piombo, materiale artistico ormai del passato.