Città Sant’Angelo è un paese di circa 15.000 abitanti adagiato su una collina a una decina di chilometri di distanza da Pescara, in Abruzzo. Oltre a panorami magnifici, una bellissima Collegiata trecentesca e altre chiese tardomedievali, la cittadina offre anche un Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea, istituito nel 1998 (ma in realtà funzionante già dal dicembre del 1995): una realtà alquanto incredibile, ubicata in una ex Manifattura Tabacchi che a sua volta sfruttava ambienti appartenuti in precedenza a un convento del XVI secolo. A differenza di molti altri musei d’arte “contemporanea” presenti in piccoli centri italiani, ci troviamo qui di fronte a un’istituzione che, fin dalla fondazione, ha perseguito (con finanziamenti pubblici nel corso degli anni sempre più esigui – tanto da essere ormai al lumicino – e quindi in sostanza grazie a un impegno volontario dello staff) un percorso legato alle tendenze più avanzate della produzione artistica attuale, tra opere su supporto tradizionale, installazioni (quasi sempre site-specific), videoarte, interazioni arti visive/musica.
Fra gli artisti che hanno esposto nel corso degli anni, si segnalano i nomi di Michel Auder, Bruna Esposito, John Wood&Paul Harrison, Adrian Paci, Sislej Xhafa, Roberto Cuoghi. William Basinski, il compositore d’avanguardia americano, ha recentemente donato al Museo tutto il suo archivio visuale. Un progetto particolare creato dal Museo è stato inoltre “Godart – arte a scuola, a scuola con l’arte”, che per una decina d’anni a partire dal 2000 ha visto la realizzazione di laboratori in cui artisti e docenti lavoravano a tempo pieno con i bambini delle scuole elementari e materne del territorio, approfondendo le tecniche artistiche contemporanee e promuovendo l’interpretazione delle opere. Direttore del Museo dal 2001 è Enzo De Leonibus, lui stesso artista (ha recentemente esposto al Centro per l’Arte Contemporanea di Trevi e all’Istituto Italiano di Cultura di Lisbona) oltre che docente di Tecniche Pittoriche presso l’Accademia di Belle Arti de L’Aquila, trovatosi quasi suo malgrado — per uno strano incrocio di circostanze — alla guida di questa istituzione.
Sandro Naglia: Ci racconti come è avvenuta la tua trasformazione da artista free lance a Direttore del Museo Laboratorio?
Enzo De Leonibus: «Diciamo così: un fatto un po’ accidentale. Avevo iniziato l’avventura assieme ad altre persone alcuni anni prima, poi le cose per vari motivi non andarono bene e mi trovai di fronte a una richiesta dell’allora Assessore alla Cultura del Comune, il cui tono era né più e né meno che questo: “O te ne occupi tu o lo spazio chiude”. E credo di esserci stato a pensare su due o tre mesi buoni, anche perché in quel periodo io facevo solo l’artista e l’idea di passare ad un ruolo di organizzatore, di direttore di uno spazio pubblico era difficile: oltretutto allora in Italia non esistevano artisti che si impegnassero a dirigere un Museo d’arte contemporanea; dopo l’hanno fatto in tanti… Alla fine accettai, anche perché la pressione degli artisti stessi — “Non facciamo chiudere questo spazio” — era piuttosto forte. Così per alcuni anni ho portato avanti questo progetto, però ne sono stato penalizzato enormemente come artista: ora venivo classificato come “curatore”, “direttore di un museo” eccetera. Poi per fortuna altri hanno come sdoganato questo “doppio ruolo” di artista e direttore, dimostrando come in qualche modo fosse possibile. Considero comunque quest’avventura come una sorta di mia creatura, visto il tempo che dedico e che passo materialmente lì al Museo, e che mi rende difficile pensare ora la mia vita senza di esso. Diciamo che questo è stato un ulteriore mio contributo all’arte, ed è stato ovviamente anche una fonte di grande piacere. Perché uno crea uno spazio fisico d’interesse in periferia, ma quella periferia per così dire fattiva, dove “tutto è possibile”: ricordo per esempio una mostra di Beninati che — in maniera un po’ tarkovskiana — allagò gli spazi del Museo, realizzando un lavoro straordinario, e credo che in altri luoghi non gli sia stato possibile ripetere delle operazioni del genere. Un’altra cosa che ha caratterizzato il Museo credo siano stati proprio i laboratori d’arte: un modo civile di ridare a una collettività che ospita un progetto… L’avventura di Godart dura una decina d’anni: si interrompe con il terremoto de L’Aquila e con la successiva mancanza di fondi. Ma ora i giovani che frequentano il Museo e spesso ne sono anche collaboratori fattivi, sono proprio i ragazzi che alle elementari frequentavano quei laboratori. Questo è l’aspetto di ricaduta sociale sul territorio di questo tipo di operazioni».
S.N.: Il Museo ha una collezione permanente? Che equilibrio c’è tra mostre e acquisizioni?
E.D.L.: «Negli ultimi anni il rapporto va “in diminuendo”, per motivi economici. La collezione permanente del Museo è costituita principalmente di opere degli artisti che hanno fatto la storia di questo luogo: nei tempi in cui la disponibilità economica era maggiore si riusciva a entrare anche nella produzione vera e propria delle mostre, il che agevolava poi anche le acquisizioni. Attualmente la cosa va avanti grazie soprattutto alla donazione volontaria di opere da parte degli artisti, cosa che io non chiedo mai ma che sistematicamente avviene. Qualcuno mi dice che questo posto porta fortuna, il che mi fa piacere; però ripensando a tutto il lavoro svolto in questi anni soprattutto con artisti giovani, effettivamente credo che un po’ di fortuna porti… e forse non è una cosa casuale, ma in qualche modo meritata perché è un luogo che favorisce il crearsi di una relazione. Per quanto è possibile, io continuo a seguire gli artisti, ad appoggiarli, a volte anche a consigliarli… Quindi questo diventa un piccolo luogo di riferimento, pur senza accampare grandi pretese».
S.N.: Chi sono, secondo te, gli artisti più importanti delle ultime generazioni, sia tra i nomi già noti a livello internazionale che tra quelli che potremmo definire “le giovani speranze”?
E.D.L.: «Io spero: quelli che non conosco ancora! Non è una battuta cattiva; intendo dire: credo che ci sia un’alta qualità in giro e, se mi permetti, faccio una piccola polemica: una grande qualità io continuo a trovarla in Italia, anche se l’Italia non fa sistema, non potenzia le sue risorse eccetera… Sono curioso nei confronti di tanti, però sono anche abituato a considerare un’altra cosa: non si è artisti per una stagione sola, due stagioni o tre… e la storia, la cronaca dell’arte recente in realtà ci narrano cose diverse al proposito. Sai, io poi appartengo a una generazione i cui riferimenti di allora, che all’epoca non erano “grandi”, sono i “grandissimi” di ora, e questo condiziona un po’ il mio sguardo rispetto all’iter di molti giovani artisti di oggi…».
S.N.: Parliamo della tua attività di artista. Hai fama di essere un artista pigro, certamente non “commerciale”: non più di uno o due grandi lavori l’anno. Ultimamente però due mostre importanti ti hanno costretto a rimetterti in moto. Puoi parlarci delle tue opere recenti?
E.D.L.: «Mi è capitato, in una mostra recente, che qualcuno che non vedeva il mio lavoro da vent’anni mi abbia detto: “Ah, sono diverse queste opere!”. Io credo invece di continuare a lavorare sulle stesse cose: i materiali sono quelli, i concetti, le cose che mi attraggono sono sempre gli stessi… Tutto nasce dalle osservazioni che faccio nel raggio di mezzo chilometro qui intorno… sì, mezzo chilometro: è come elevare un pensiero minimo di osservazione, dare voce al mio piccolo mondo che magari può interessare qualcuno… Non voglio parlare di cose che non conosco: in un mondo così globalizzato rivendico il mio punto di vista diretto sulle cose, anche cose piccole, umili… Io poi non ho assistenti: faccio tutto io, il lavoro sui materiali è totalmente “artigianale”. Essere assente dal mondo delle mostre, delle esposizioni? In realtà io mi occupo di arte dalla mattina alla sera! Poi molte mostre sono anche inutili: è solo una fatica farle…».
S.N.: I prossimi progetti del Museo Laboratorio?
E.D.L.: «Quest’estate ci sarà una mostra di Magdalena Correa, fotografa d’origine cilena che vive ora in Spagna, che esporrà, oltre a una serie di foto, quattro lavori video. In itinere ci sono altri quattro / cinque progetti espositivi, e poi c’è un’idea che accarezzo da tempo, che potrebbe realizzarsi diciamo tra un paio d’anni: riunire in una collettiva diversi artisti — famosi e non — che hanno contribuito in maniera particolare al progetto e alla storia del Museo. Una Rimpatriata tra amici: si può definire così?».