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Non abbiamo più tempo per niente, figuriamoci per l’arte.

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ABBIAMO FINITO IL TEMPO, anche per l’arte 

Da Milano a Venezia tra Miart, Salone del Mobile e Biennale d’Arte 

A Milano, dove abbiamo tutto, abbiamo finito il tempo. In una notte, come l’anno scorso, abbiamo archiviato il Miart, la fiera dell’arte dal 12 al 14 aprile, e con un immaginario cambio di set è partito il Salone del Mobile (quest’anno dal 16 al 21 aprile). Agli occhi di un provinciale quest’ultima manifestazione è la vera festa patronale della città, San Salone, con relativa Design Week e tutto quello che è fuori (salone). Per una volta la parola fuori (out) ha un’accezione positiva, considerato che questa è una città dove tutto dovrebbe essere in, soprattutto il tuo nome, soprattutto nelle liste che contano, altrimenti ti sembra di perdere il meglio e la fomo potrebbe distruggerti.

Se avessimo avuto tempo ci saremmo chiesti perché per l’Arte usiamo la parola Fiera mentre il termine Salone, che pure è legato al Salon du Louvre e al Salon des Refusés, lo abbiamo ‘prestato’ al Design. Questo cambio potrebbe essere alla base dell’interesse sempre maggiore verso il design, anche da collezione, rispetto all’arte, soprattutto se contemporanea. Tempo per farsi domande ne è rimasto davvero poco anche perché quest’anno ci si è messa anche la Biennale di Arte che a Venezia accoglierà il mondo con la pre-apertura del 17 aprile (la manifestazione va dal 20 aprile al 24 novembre).

Se avessimo tempo dovremmo, o potremmo, interrogarci su cosa rimane oltre il valore economico di un’opera d’arte (stiamo pur sempre parlando di un sistema fatto di gallerie che devono far quadrare bilanci, pagare commissioni, dipendenti e dunque fatturare!).

Ad averci tempo dicevo potremmo e dovremmo chiederci se le opere esposte al Miart o in Biennale riusciranno a contaminare i valori delle nostre società. Le opere degli artisti che da ogni latitudine sono arrivati a Milano e a Venezia (mai come quest’anno, forse) cambieranno il nostro immaginario?

Le opere delle artiste donne riusciranno a influenzare e ribaltare le gerarchie del modello patriarcale? E tutte le altre opere che riflettono sul senso della Storia, errori ed orrori, riusciranno a convincerci che è ora di cambiare? E quelle che vorrebbero spingerci a ripensare il nostro modello di sviluppo economico ci aiuteranno a fermare il cambiamento climatico? Ma chi ce l’ha il tempo per tutte queste domande? 

Con il tema NO TIME NO SPACE il Miart ci invitava proprio a ripensare alle due categorie fondamentali dello spazio e del tempo. L’anno scorso, per dire, il tema era CRESCENDO, ma chi sperava in un diminuendo per il 2024 si è dovuto ricredere.

I curatori, ispirati da una canzone di Battiato del 1985, che era già avanti e cantava no time no space another race of vibration the sea of a semulation, volevano per questa edizione, come da  comunicato stampa, estendere ancora di più i propri confini sia a livello temporale – allargando ulteriormente l’offerta di opere d’arte dal punto di vista cronologico – sia geografico – aumentando il numero di incursioni nel tessuto urbano.  

A pensarci bene, senza voler entrare troppo nel merito, per molti di noi è tutto un no time no space continuo, ma non nel senso della dilatazione verso quei mondi lontanissimi del cantautore siciliano. Soprattutto in questi anni tecnologicamente tormentati, sembra che si viva, quasi tutti, in una vera e propria penuria sia di spazio che di tempo. Altro che sensazione di moltiplicazione, estensione e dilatazione. 

In una ricerca, commissionata tempo fa dalla Tate di Londra, era venuto fuori che ogni visitatore del museo in media dedica ad un dipinto circa 8 secondi. Cosa sono questi pochi attimi se li confrontiamo con le informazioni condivise da DataNeverSleeps che, qualche tempo fa, ci informava come in media ogni minuto condividiamo su Instragram una media di 66.000 foto e su Facebook circa 1,7 milioni di contenuti? 

Tra Miart, Salone e Biennale – quest’anno il trittico è perfetto – gli art lovers e i design addictedhanno già  invaso lepiattaforme di scatti, video e reels che ritraggono installazioni, dipinti, opere e manufatti di design. Chissà dove troveremo il tempo per questa furia di immagini per citare il famoso libro del fotografo e curatore Joan Fontcuberta che ha appena concluso la sua mostra a Venezia. 

Tutte queste foto che diventano posts con tags e like, e poi i cuori e le fiammelle di Instagram, sicuramente ci aiutano a sopperire, per un verso, alla mancanza di tempo, visto che non si può presenziare a tutto e così sembra che l’arte trovi spazio comodamente nei giga (ce ne vogliono sempre di più) e nelle nostre timeline social obbligandoci comunque a fare qualcosa.

Un discorso a parte si dovrebbe fare per chi vuole iniziare una collezione: non solo ci vuole un budget, e vabbè, ma le opere sembrano diventare più grandi e le case diventano sempre più piccole (a Milano ormai le grandi o medie metrature hanno raggiunto cifre da capogiro). Agli appassionati di contemporaneo, in mancanza delle opere fisiche, rimangono le interazioni online.

Tutto questo lanciare story, postare e ripostare e farsi rilanciare promette hype attorno ad artisti e progetti che interessano e che si vorrebbe portare all’attenzione dei propri amici e conoscenti sui social. Basterà tutto questo perché le opere non finiscano nel dimenticatoio e magari producano quel cambiamento che in molti auspicano? Ci tocca rimandare la discussione ad una prossima volta perché sembra che non ci sia tempo per niente, figuriamoci per l’arte. 

Salvatore Ditaranto
Salvatore Ditaranto
Salvatore Ditaranto si occupa di marketing, contenuti e palinsesti televisivi in Rcs. È appassionato di arte, di editoria e di Milano.

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