Mentre il Medio Oriente si scalda, ancora una volta rischiando di infiammare il mondo intero, riprendo in mano Kim di Rudyard Kipling, un classico della letteratura di oltre un secolo fa che nasconde, tuttavia, clues utili per capire il mondo di oggi. O, almeno, parte di esso.
Lo sfondo delle avventure del giovane meticcio indo-irlandese Kim O’Hara – che dei due popoli ha ereditato le qualità migliori – è quello del cosiddetto Grande gioco. The Great Game, la guerra sotterranea fatta di spionaggio, controspionaggio, mercenari e traditori, con la quale, nell’Ottocento, Gran Bretagna e Russia si contesero il dominio dell’Asia centrale senza mai spararsi un colpo.
Creare una catena di potere dalla Palestina all’India per dominare il mondo. L’avevano capito bene, gli inglesi, ideatori dell’approccio scientifico alla geopolitica con gli scritti di sir Halford Mackinder, nonché coniatori del termine Medio Oriente, Middle East, terra a metà tra l’Europa mediterranea e il Far East, il lontano mondo sinoindiano.
All’inizio del bel romanzo di Kipling, Kim è ancora un monello che vive di espedienti per le strade di Lahore. È qui che, in un pomeriggio di ozio, incontra un vecchio monaco tibetano impegnato in un pellegrinaggio imprecisato alla ricerca del Dharma.
«O bambini, cos’è quella grande casa?» chiese il vecchio in ottimo urdu.
«L’Ajaib-gher, la Casa delle Meraviglie!».
«Ah! La Casa delle Meraviglie! E ci può entrare chiunque?».
«Sulla porta sta scritto: aperto a tutti».
«Senza pagare?».
«Io entro ed esco, e non sono certo un banchiere» disse Kim ridendo.
La Casa delle Meraviglie, piena di immagini di idoli, altro non è che un museo, gestito da un barbuto conservatore sahib, un europeo. Quello che conserva al suo interno, e che viene descritto nel libro, potrebbe sorprendere
Kim passò il tornello, facendolo scattare; il vecchio lama lo seguì e si arrestò stupito. Nel salone d’ingresso erano esposte le figure più grandi della statuaria grecobuddhista; datarle è impresa da eruditi – opera di artefici anonimi dalle mani impegnate a ritrovare, non senza maestria, il
tocco greco misteriosamente trasmesso.
Come possono delle sculture indiane mostrare un tocco greco? Per scoprirlo, bisogna rimettersi sulla strada che Sikander aprì dalla Macedonia all’India. Il Sikander secondo gli indiani altri non è che l’Iskander secondo i persiani: Alessandro Magno, naturalmente, il quale fondò un impero di cultura greca che si estendeva dall’Europa fino al nord dell’attuale Pakistan. Proprio dove si trova la città di Lahore dove abita Kim.
Quando l’impero alessandrino si disgrega, le influenze ricevute da occidente sfumano nel mito ma non vanno perdute.
Esse riaffiorano soprattutto nello storico regno di Gandhara (comprendente anche parte dell’attuale Punjab, dove si trova Lahore), ove si crea un filone artistico che rappresenta i temi della ieratica religione indiana con i metodi del terreno realismo dell’arte greca: grandi Buddha con l’aspetto di Apollo, come le grandi statue che Kim e il lama vedono nella Casa delle meraviglie.
Il Maestro Buddha figurava seduto sopra un loto dai petali scavati così profondamente da sembrare quasi staccati dal fondo. Lo attorniava un’adorante gerarchia di re, anziani e Buddha più antichi; e sotto vi erano acque ricoperte di loti con pesci e uccelli acquatici. Due dewa dalle ali di farfalla tenevano un serto sul suo capo; sopra di loro un’altra coppia reggeva un ombrello sormontato dal diadema ingemmato del Bodhisat.
Che meraviglie nascono quando culture lontane si incontrano, si scontrano, dialogano o provano a distruggersi l’un l’altra, finendo, inevitabilmente, a contaminarsi vicendevolmente. Da che si ha contezza della Storia, sarà successo migliaia di volte.
Ne è un altro esempio il cosiddetto Barocco andino: lo stile che si formò quando pittori autoctoni dell’America, e in particolare della città di Cuzco, assorbirono gli elementi del barocco europeo importato nel nuovo mondo dalle caravelle spagnole.
Madonne e santini decorati con elementi vegetali esotici, pose e tratti semplificati al limite del caricaturale: una gioiosa espressività abbastanza estranea alla serietà del canone europeo.
Uno stile che oggi definiremmo con superbia naif, ma che ha, invece, un’originalità e una freschezza anticonvenzionale che certa arte contemporanea si sogna.