Secondo i più recenti dati Istat il 72% degli italiani non è mai entrato in un museo o in una mostra nell’ultimo anno. Questo semplice dato, commentato da Ledo Prato (presidente dell’associazione Mecenate 90) in occasione di TTG Incontri, conferma la debolezza del nostro patrimonio culturale – un immenso tesoro che continua a rimanere parzialmente nascosto. Un bacino di ricchezze non ancora adeguatamente valorizzato e che, soprattutto, non comunica o comunica ancora troppo poco.
I musei, come tutti sappiamo, non sono soltanto le sedi che accolgono e conservano le opere d’arte, ma hanno, nell’insieme delle funzioni che svolgono, un valore educativo fondante che si traduce nella capacità di rendere i beni accessibili a chiunque. Rendere fruibile un’opera, però, non vuol dire necessariamente renderla comprensibile ai più. Qui entra in gioco la didattica dell’arte. Intendendo con essa l’insieme di strumenti e metodologie finalizzati al raggiungimento dell’obiettivo appena esposto.
C’era una volta la “didattica dell’arte”
Emersa in Italia nel secondo Dopoguerra, la didattica dell’arte raggiunse livelli molto alti soprattutto tra gli anni Cinquanta e Settanta. Nel clima di generale rinascita che caratterizzò quel ventennio, i più importanti musei italiani, guidati da lungimiranti direttori, si adoperarono per formulare nuovi programmi che avvicinassero e coinvolgessero maggiormente la popolazione. Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, al Museo Poldi Pezzoli di Milano, alla Galleria degli Uffizi e alla Galleria Borghese, alla Pinacoteca di Brera si studiarono i primi strumenti di indagine per comprendere i problemi di approccio al museo (legati in particolare ai bambini e ragazzi), analizzando interessi e bisogni di cultura, si produssero le prime schede critiche delle opere, si adottarono nuovi metodi per svolgere le visite guidate, magari gratuite e di domenica mattina. Nel 1969 fu istituita presso il Ministero della Pubblica Istruzione la Commissione per la didattica dei musei e così nacquero i dipartimenti di educazione.
Nel 1971, poi, si tenne a Roma un convegno di fondamentale importanza: “Il museo come esperienza sociale”, perché in fondo è di questo che si sta parlando. Quando si varca la soglia di un museo, infatti, non si è soltanto di fronte ad una serie di nozioni nuove da apprendere e di opere da guardare, ma si dovrebbe avere la possibilità di compiere un percorso di trasformazione anche fermandosi di fronte ad una sola opera. La didattica dell’arte attraverso i laboratori, sfruttando l’interazione (intesa come azione che sia anche partecipazione) e la multisensorialità, non soltanto si concentra sulla trasmissione di contenuti, ma cerca di mettere in pratica, e dunque sviluppare, una serie di abilità inerenti ad esempio le tecniche artistiche. L’importanza ovviamente non risiede nel manufatto creato, ma nel processo attivato per realizzarlo, che avrà condotto alla sviluppo di capacità creative, immaginative, relazionali, progettuali fondamentali non solo nel processo di crescita del bambino ma anche nella vita quotidiana dell’adulto. Esistono infatti percorsi e attività mirate per ogni fascia di età, sfatando il mito che queste siano “cose da bambini”.
Le dinamiche del gioco (artisti come Bruno Munari e Maria Lai lo hanno ampiamente dimostrato) continuano ad essere un mezzo insostituibile per catturare l’attenzione e la curiosità, ancora una volta, più dei grandi che dei piccoli. Perché bisogna dirlo: camminare per ore in sale stipate di opere con l’ausilio delle audioguide o delle più recenti e innovative app funziona, ma fino a un certo punto. Bisogna mettersi all’opera e fare – “fare per capire” appunto – affinché ci sia un reale lascito da parte del museo. L’emozione, l’immaginazione e la progettualità sono le chiavi che la didattica museale ha e con le quali potrebbe sovvertire il dato iniziale. Ma chi crede ormai in queste cose?
La situazione oggi
Oggi, tutti i più importanti musei dispongono di validi dipartimenti di educazione, ma spesso questi ultimi sono costretti a lavorare in condizioni estreme: con pochissimi fondi e in situazioni di precariato perenne riescono a offrire un servizio didattico che, portato avanti grazie alla passione del personale che vi lavora, inevitabilmente risente di tali ristrettezze. Fatta eccezione per alcuni casi particolari di eccellenza, l’esperienza comune sembra evidenziare che nel nostro Paese il ruolo dell’edutainment museale sia ancora scarsamente diffuso. Una delle motivazioni che portano a questo risultato è una riflessione vera per il sistema museale, ma non solo: i fondi destinati all’educazione molto spesso sono i primi a venir tagliati quando c’è bisogno di restringere il budget. In altre parole, agli occhi di chi gestisce un museo è sempre più importante fare mostre belle che assicurarsi che le stesse possano essere veramente comprese da tutti.
E qui c’è l’errore di una classe culturale che di manageriale ha spesso soltanto i titoli della stampa generalista: l’edutainment non solo rappresenta per il museo una delle più forti leve per l’engagement con i fruitori, ma permette anche di conoscere, apprezzare e fidelizzare il proprio pubblico. Detto in altri termini: conosci il tuo cliente, capisci le sue esigenze, e sulla base di queste rendi piacevole il consumo dei tuoi beni e/o servizi. Ai più questa visione potrà sembrare eccessivamente liberista, ma sfido a mantenere una posizione contraria ad essa dopo aver visitato un museo o un luogo della cultura con un operaio, un anziano, una casalinga che ha come consumi culturali principali le ore medie trascorse davanti a programmi televisivi di dubbia qualità.
Se il dibattito pubblico è “perbenisticamente” unanime nello stabilire che un vero cambiamento ci sarà quando si deciderà di ridare alla formazione il ruolo fondante che le spetta nella società civile, sono meno chiari i criteri con cui questo debba avvenire: esperienze interessanti, nazionali ed internazionali, esistono, ma non tutte necessariamente copia-incollabili sulle realtà locali, ma comunque fonte di stimoli. Certo, la scarsità di risorse è un “allegro” che unisce tutti gli operatori culturali, ma vorrei ricordare che la “scarsità di risorse” è il principio alla base della nascita dell’Economia. Potrà piacere o meno: di sicuro motivare la mancanza di appeal con la scarsità di risorse è una strada che sinora ha portato a poco.
(Articolo aggiornato il 03/11/2015 ore. 23.29)
[infobox maintitle=”Nota per il lettore” subtitle=”L’articolo è stato scritto in collaborazione con la dott.ssa Maria Grazia Battista” bg=”gray” color=”black” opacity=”off” space=”30″ link=”no link”]