Maura Banfo, nata nel 1969 a Torino, dove vive e lavora, alla fine degli anni Novanta ha inaugurato una ricerca artistica improntata prevalentemente su linguaggi fotografici e video, intervallati da sperimentazioni che spaziano dall’installazione alla scultura e al disegno.
Pur nascendo come scultrice, da sempre più appassionata alla potenza della materia, Maura ha trovato nella fotografia il suo medium più calzante, trasportando la sua visione tridimensionale all’interno dello spazio fotografico e nella tipologia di stampa. Le sue sono immagini evocative, note per la loro capacità di raccontare brevi storie, in cui gli oggetti sono testimoni silenziosi di ciò che è oppure è stato. Il suo lavoro di raccolta di suggestioni comprende la produzione di lunghi scritti, scatti e disegni, ma anche la collezione di elementi appartenenti al regno animale e vegetale, ad esempio conchiglie o nidi che con certezza sono ormai stati abbandonati dai loro ospiti. Ognuno di questi piccoli mondi viene ascoltato, elaborato e tradotto in lavori dalla poetica molto diretta, in cui il pubblico può immedesimarsi e trovare un significato privato.
È proprio sull’analisi del pensiero dietro ad opere come i Nidi, che costituiscono un nucleo di una quindicina di opere di diverse forme e dimensioni, realizzate sia su base di nidi veri che costruiti, prodotte in circa dieci anni, che abbiamo lavorato e prodotto la scheda tecnica di Project Marta – Monitoring Art Archive. A partire dall’intervista con l’artista, abbiamo appurato come i Nidi siano stati realizzati mediante fusioni di alluminio, zincature a freddo oppure resine, ed in tonalità oro e argento, ed inoltre come questi non siano sempre lavori congelati in un momento definitivo, poiché in alcuni casi la loro fragilità non consente loro di mantenere la stessa identica struttura nel tempo. In questi casi specifici la volontà di mutamento è parte integrante del lavoro oltre che alla realizzazione della stessa, e si tratta dunque di una scelta consapevole da parte di Maura, una testimonianza che Project Marta raccoglie e documenta per tutte le opere della serie, redigendo una carta d’identità per ognuna, raccogliendo tutte le informazioni utili a conoscerle in profondità, e quindi a tutelarle nel corso della sua esistenza.
Maura è rappresentata dalla Galleria Davide Paludetto di Torino e dalla Galleria SR di Berlino, dove fino al 20 maggio è visitabile la mostra collettiva WUNDERKAMMER DER NATUR, con alcune opere dell’artista. Le altre sono sul sito www.maurabanfo.com
Benedetta Bodo di Albaretto: Il Nido come simbolo e spazio privato ideale da costruire, difendere, sistemare. Il primo nido che hai realizzato risale al 2005, in occasione della mostra Genius loci curata da Guido Curto nel Parco del Castello di Racconigi. Potresti raccontarmi la fascinazione e l’evoluzione del tuo interesse nei confronti di questo soggetto?
Maura Banfo: «Non è del tutto esatto, da questa mostra partì effettivamente tutto il mio lavoro sui Nidi, ma il primo – strutturalmente parlando, intendendo una prima scultura – lo realizzai per una mostra da Bagnai (n.d.r. Firenze) nel 2008. Però per Genius loci ho realizzato una scultura che è tutt’ora all’interno del parco del Castello, la prima sperimentazione in tal senso. Si trattava di un lavoro sulla migrazione della cicogna, un lavoro site specific molto libero, incoraggiati a studiare il luogo, a trovare ispirazione. In quel contesto ho scoperto la storia dei nidi delle cicogne sulle guglie del Castello e il vicino centro Lipu: ho conosciuto la famiglia di Gabriella che tutt’ora gestisce il centro e con loro ho potuto studiare il comportamento delle cicogne, i movimenti nei loro nidi…è nato così un amore».
B.B.: Come si lega questo progetto al tuo percorso artistico? Come si è evoluta quest’installazione, questo dialogo rispetto alle opere che lo hanno preceduto?
M.B. : «Ho sempre amato molto la scultura, è sempre stata la parte della storia dell’arte che preferivo, e alla fine del liceo ho avuto la fortuna di fare l’assistente di Luigi Mainolfi per diversi anni, perciò la scultura è stata una parte importante della mia vita, ma non mi sono mai ritenuta una scultrice, non amo le etichette, mi sento libera di sperimentare. Le mie fotografie sono sempre state molto materiche e tridimensionali, ma in questo caso è stato come se non mi bastasse la fotografia, perciò ho dato sfogo alla mia necessità della tridimensionalità tangibile attraverso i Nidi. Il dialogo si è evoluto nel tempo perché, ho sempre lavorato in qualche modo sul concetto di casa, intesa come luogo protetto, ed un nido chiaramente traduce bene questo concetto, così come la conchiglia di Gita al faro, uno dei miei ultimi lavori, è un guscio, una protezione. Ma sono case anche lasciate, che portano con sé un senso di qualcosa che è stato. Fermarle nel tempo è stato per me necessario…»
B.B.: Mi puoi raccontare i tempi di “incubazione”, il processo creativo che ha portato alla progettazione realizzazione e all’allestimento di Il tempo dei luoghi?
M.B. : «Io sono la natura. La natura è parte integrante di me. Io sono un elemento della natura. Non posso fare a meno di guardare alla natura in maniera coinvolta, senza distinzione alcuna. La mia ricerca sui “nidi” è una ricerca sulla metafora della casa, laddove casa è significativa di cura, dalla capanna di coperte ai piedi del letto, alla casa sull’albero, dal precario riparo di giunchi in riva al mare alla tenda tecnologica di ultima generazione, dalla conchiglia al guscio più coriaceo al bozzolo alla tana la forma della casa passa per mille tipologie. Costruisco protezioni e case senza tempo: “nidi”. Rifugi temporanei e protettivi. Casa è ciò che tende a ricrearsi nei luoghi più diversi. Oppure è un luogo fatto di più luoghi in ognuno dei quali si viene a creare un modo unico e sempre diverso di stare che è in sintonia con il mondo diverso in cui si è. “Dovremmo fare ogni giorno esercizio di natura per curare la frattura tra gli esseri umani e i suoi elementi, per renderci partecipi di uno spettacolo non mediatico, fatto di onde, di cielo e di vento…” (cit.)
I primi nidi, quelli più piccoli, sono nidi veri, che gli amici mi portano da ogni dove… da poco ne ho ricevuto uno dal Brasile. Invece ad esempio Il tempo dei luoghi è stato ispirato da un nido di corvo (un regalo dell’artista Simona Galeotti) che ho recuperato dopo la caduta da un albero: l’ho usato come fulcro per costruirci attorno qualcosa di magico, di non esistente, raggiungendo un diametro di circa 3 metri. Legno e resina sono i materiali che ho scelto di utilizzare, per poi rifinire il tutto con una zincatura di argento freddo. Sono gli stessi materiali e la stessa tecnica – ma rifinito con una zincatura oro – con cui ho realizzato il Nido per la seconda edizione di Arte alle Corti, esposto ai Giardini di Palazzo reale a Torino. Ad oggi ho realizzato una quindicina di Nidi e si tratta di una ricerca in continuo divenire; non escludo che ne verranno altri, ma non so ancora con quali materiali lavorerò, è tutto in trasformazione. Ogni Nido è un’opera unica, non riproducibile».
B.B.: Quali materiali e tecniche hai scelto di utilizzare in questo caso? Sono frutto di un’evoluzione nella tua ricerca rispetto alla realizzazione dei nidi?
M.B. : «I primi nidi erano delle fusioni di alluminio, la durezza del metallo mi dava l’idea di poter fermare il tempo, un po’ come uno scatto fotografico. Poi mi sono sentita più attratta da un’idea di trasformazione, di mutamento continuo, e ho così deciso di realizzarli in legno, proprio come la loro natura. La costruzione richiede tanto tempo, è un processo lento, riflessivo, al termine del quale ho resinato a pennello ogni ramo è rifinito con una zincatura a freddo».
B.B.: Molti artisti integrano nella loro opera il concetto di temporalità, di effimero. In questo caso, quanto è importante la testimonianza del passaggio del tempo sull’opera?
M.B. : «Una parte di me è attratta dall’idea che il lavoro possa vivere per sempre, l’altra è affascinata dalla possibilità di mutamento e, perché no, di sparizione! Ma io sono tutto e il contrario di tutto, per cui tendo a continuare a sperimentare proprio per affinare la ricerca e la sua permanenza nel tempo. Con il media fotografico ovviamente è tutto un altro discorso».