La prima immagine che da sempre mi giunge alla mente ogni qual volta penso ad un collezionista è quella di un uomo intento a disporre con cura l’opera tanto desiderata ed infine acquistata in una stanza.
La stanza non è chiaramente una semplice stanza o una stanza a caso tra le stanze di casa. La stanza è la stanza perfetta per quell’opera, ed è già lì pronta, con ben visibile e calcolato l’ingombro adeguato ad accogliere la materializzazione di un desiderio inseguito da tempo.
Così immagino imballaggi che si aprono e cadono a terra, “Piano” dice, e una danza delicata di una o più persone che attente si muovono attorno ad un piano d’appoggio, “Solleva” ribatte, e così avanti fino al posizionamento dell’opera.
Qualche ritocco alle luci, un sospiro e contemplazione. Ma si sa, la realtà non coincide sempre con l’immaginazione, e nel tempo al suono di “non so, mi è stato consigliato dal mio agente, credo sia un quadro importante” la mia visione romantica ha iniziato a perder acqua da ogni parte e quell’idea di Wunderkammer e di collezionista attento, interessato ed immerso nell’oggetto e nella composizione di un corpus che mi ero costruita negli anni di studio andava pazientemente raccolta e messa in tasca perché si era quasi totalmente sbriciolata.
Per fortuna negli anni a venire sono accaduti incontri magnifici che hanno saputo in un soffio rimetter in sesto tutti i pezzi. Primo tra tutti, non in ordine di tempo, l’incontro con la collezione messa insieme dal designer Massimo Dolcini.
Era forse il 2015, il mio incontro con la collezione è avvenuto grazie in prima battuta alla sua famiglia, poi ai suoi amici e collaboratori che, negli anni in cui mi trovavo ad essere la responsabile delle politiche culturali della città di Urbania, erano alla ricerca di un luogo che potesse conservare al meglio le opere raccolte nell’arco della vita di Massimo a pochi anni dalla sua scomparsa.
Non ho infatti avuto l’onore ed il piacere di conoscere personalmente il collezionista, ma le opere raccolte e la cura che riversavano su esse le persone che se ne stavano occupando in quel momento era tale da farmi percepire tangibilmente quanta passione, dedizione e cura il collezionista avesse trasmesso loro nei confronti di quegli oggetti.
Una sensazione di profondo rispetto e condivisione attraversava ogni passaggio dei nostri incontri ed anche tutte le operazioni di conservazione che ne conseguirono.
L’impressione era esattamente che stavano tenendo accesa un’idea, una prospettiva, un progetto; maneggiavano con cura i racconti, i ricordi, le esperienze. Il collezionista aveva creato consapevolezza intorno a quegli oggetti e la collezione era viva, pulsante.
La collezione non era un insieme di oggetti appartenenti ad una persona ma un prolungamento della persona stessa. Stiamo parlando nel caso specifico della sua collezione di ceramiche popolari provenienti da tutto il mondo: un prezioso, curioso e singolare compendio di forme, tecniche e colori che hanno in comune oltre alla materia di cui son fatte soprattutto una importante cifra narrativa riconducibile all’uso quotidiano e alle tradizioni che legano nel tempo e nello spazio gli oggetti al cibo.
Quasi seicento pezzi che Massimo Dolcini ha messo insieme producendo un’attenta operazione culturale di ricerca sviluppatasi in ogni angolo della terra, studiando gli oggetti nella forma, nell’estetica e nella funzionalità, raccontandoli e traducendone linee, stili e volumi e reinterpretandoli in una visione contemporanea non priva di contaminazioni all’interno della propria ricerca di designer, assurgendo così lui per primo alla figura non solo di collezionista ma anche di conservatore.
Sì, conservatore. Il collezionista coincide spesso e per fortuna con il conservatore. E chi è il conservatore? Soffermiamoci brevemente sul significato di questa parola, usata poco, compresa a metà ed in continua evoluzione. I dizionari rimandano alla figura del conservatore funzioni di mera custodia e mantenimento nel tempo di qualcosa di materiale e/o immateriale; a volte la definizione si completa con l’accezione persona poco attenta al progresso e all’innovazione.
Il Codice dei beni culturali e del paesaggio all’articolo 29 designa le azioni che servono ad assicurare la conservazione del patrimonio culturale, cito testualmente La conservazione del patrimonio culturale è assicurata mediante una coerente, coordinata e programmata attività di studio, prevenzione, manutenzione e restauro.
Sono due visioni corrette parzialmente (linea rossa sotto il passaggio che nega l’attenzione al progresso e all’innovazione) ma soprattutto non complete. A mancare sono tutte quelle azioni propulsive che mantengono vive le opere nel tempo, organizzandole e tenendole sempre in dialogo con lo spazio e il tempo. Sono le azioni di Massimo Dolcini ed altri collezionisti e le azioni di chi si interfaccia direttamente con quei collezionisti che intendono generare significato attraverso una collezione.
Oggi è possibile praticare una serie infinita di azioni volte a creare connessioni, valorizzazione, consapevolezza e contemporaneità di significato. Sono la nuova interessante frontiera della conservazione e le nuove necessarie caratteristiche di un conservatore ed affiancano le più tradizionali forme che conosciamo come lo studio, la ricerca, la divulgazione scientifica e la musealizzazione ed è per questo che in un luogo dove si parla di collezionismo è sempre importante parlare anche di conservazione.