Prendendo il tram (“o eléctrico”) dal Terreiro do Paço — propriamente Praça do Comércio, ovvero la grande piazza settecentesca che si affaccia sul Tago (Tejo!) ed è uno dei simboli di Lisbona — e costeggiando il fiume verso la sua foce a ovest, si arriva a Belém, quartiere della capitale sorto nel XV secolo come approdo delle navi portoghesi in partenza o ritorno dalle esplorazioni e dalle colonie.
Qui, a due passi dal Mosteiro dos Jerónimos, capolavoro del gotico manuelino, e vicino al Padrão dos Descobrimentos, il moderno e suggestivo monumento ai navigatori portoghesi eretto sulle rive del fiume, ha sede il Museo Coleção Berardo, nato per volontà dell’imprenditore José Berardo, grande collezionista e promotore dell’arte contemporanea in Portogallo. La collezione, che conta un migliaio di opere delle maggiori tendenze internazionali dai primi del Novecento a oggi, ha trovato una splendida collocazione nel Centro Cultural de Belém, una struttura spettacolare nella sua eleganza, vero capolavoro progettato dall’architetto portoghese Manuel Salgado assieme allo studio di Vittorio Gregotti.
Entrando nell’ala ove ha sede il museo, inaugurato nel 2007, si viene accolti da un bel giardino in cui sono esposte grandi sculture, tra cui una Reclining Figure di Henry Moore e Les Baigneuses di Niki de Saint Phalle. Dalla parte opposta, un’altra entrata caratterizzata dall’Arbre biplane di Jean Dubuffet. Lo spazio museale interno è immenso, diviso in quattro piani di cui tre destinati alle esposizioni. Alla parte permanente, divisa in due tranche (arte dal 1900 al 1960 e dal 1960 al 2010) si aggiungono le mostre temporanee, al momento tre: No place like home (fino al 3 giugno), Photo-Metragens, personale del fotografo João Miguel Barros (anch’essa fino al 3 giugno) e Line, Form and Colour, che espone opere della Collezione stessa ma legate da un preciso filo tematico (fino al 16 settembre).
Da dove iniziare? La Collezione Berardo è amplissima e di livello eccezionale: sono presenti quasi tutti i maggiori artisti del XX secolo, spesso con opere di primaria importanza. Alcuni esempi? Dalla scultura di Modigliani Tête de jeune fille à la frange (1910-1921) al bel mobile di Calder Black spray (1956); dal corpus di opere del Surrealismo, in cui spiccano notevoli lavori di Max Ernst e Joan Miró, a una collezione di Arte Povera di completezza e livello altissimi; dai décollages di Rotella e Villeglé a installazioni di Boltanski e Turrell. Vi sono diverse opere con una loro peculiarità, come due piccoli quadri di Mark Rothko del 1937-1938 ancora figurativi; oppure un Senza titolo del 1939 di Mauro Reggiani, artista raramente valorizzato in contesti così illustri; un Concetto spaziale. Attesa del 1960 di Fontana con un unico taglio su tela grezza non dipinta; o anche un enorme, bellissimo olio e collage su tela di Guttuso: Studio e paesaggio (1961).
Tra le opere di artisti portoghesi noto soprattutto Composition (1948) di Helena Vieira da Silva, le fotografie tardo-surrealiste di Fernando Lemos della fine degli anni ’40, Sombra proyectada de Claudine Bury (1964) di Lourdes de Castro, Entrada Azul (1980) di Helena Almeida. E concluderei la rassegna con ulteriori, veri e propri capolavori ancora non citati: Presenza N5V (1959) di Emilio Vedova, Royal Tide, Dawn (1960-1964) di Louise Nevelson, Lucky seven di Joan Mitchell (1962), Ten foot flowers (1967) di Andy Warhol, Eyes Turned Inward (1993) di Anish Kapoor.
Dalla Collezione sono state scelte anche le opere della mostra tematica Line, Form and Colour, in cui si esplora certa sperimentazione “estrema” svolta dagli artisti attorno agli elementi fondanti della pittura stessa. Il fulcro è rappresentato dalla presenza di opere di Malevič, Mondrian, Ad Reinhardt e Josef Albers (Study for Homage to the Square: Blond Autumn: la più bella opera che abbia visto di questo artista che in genere non mi conquista). Vi sono poi opere di Yves Klein e Cy Twombly, video “storici” di Bruce Nauman e Ana Mendieta, un’installazione di Pedro Cabrita Reis e un’enorme scultura-installazione in fibra di vetro dipinta di Frank Stella — Severambia, 1995, alquanto inedita nel suo occhieggiare alla street-art —, e poi ancora fotografie di Hiroshi Sugimoto, nonché varie opere di artisti portoghesi e inglesi delle ultime generazioni che sembrano in realtà ripercorrere modelli già sperimentati negli Stati Uniti fin dagli anni Cinquanta.
Più interessante, e molto particolare, No place like home, mostra strutturata come un insieme di sale che rappresentano i diversi ambienti di un’abitazione in un’ideale planimetria, ove le opere sono esposte in base al loro riferirsi ad oggetti o situazioni domestiche. Ideata nel 2017 al Museo d’Israele di Gerusalemme, da cui proviene la maggior parte dei più di 100 oggetti/opere esposti — gli altri arrivano da collezioni private e musei di tutto il mondo —, la mostra è divertente nel suo proporre opere anche celebri, di artisti ben noti, nei loro ambienti “naturali” di destinazione. Si va dai vari ready-made di Duchamp (il Portabottiglie in cucina, la Fontana in bagno…) al Tableau Piège di Spoerri (sempre in cucina); dal divano a forma di labbra Mae West con il telefono-aragosta White Aphrodisiac di Dalí in soggiorno, al Cadeau di Man Ray in stireria; dai Brillo Box di Warhol in garage alle opere di Koons e Murakami nella sala dei giochi dei bambini. In tutto questo, colpiscono in particolare un Wrapped Cushion di Christo esposto accanto all’opera di Tadeusz Kantor Umbrella – Packing – Multipart: accostamento interessante; la grande scultura multimediale di Nam June Paik Wrap around the World Man (1990); due opere di artiste israeliane: Sun before Sunset (2013) di Nevet Yitzhak (n. 1975) — la proiezione di una sagoma di tappeto persiano animata a mo’ di videogioco — e Honey (2006-2017) di Hadassa Goldvicht (n. 1981), una doccia da cui fuoriesce miele che, con un preciso riferimento a una cerimonia hassidica, vuole esprimere metaforicamente il passaggio dalla vocazione alla consapevolezza nel lavoro artistico.
Molto bella è infine la personale di João Miguel Barros Photo-Metragens, articolata in 13 serie di foto in bianco e nero su supporto metallico lucido, in alcuni casi lavorato con laminatura a freddo su vinile, che rende molto nette e luminose tutte le sfumature del b&n (per quanto sembri un ossimoro). Le serie — una quattordicesima è costituita da un video a colori — dichiarano una loro narratività, in realtà più legata alla storia personale dell’autore che alla sequenza degli scatti. Bellissimi i lavori di questo fotografo portoghese residente a Macao, nato nel 1958 e di professione avvocato, che ha iniziato a esporre solo pochi anni fa. Tutte queste mostre in allestimenti curati al millimetro, che permettono alle opere di dialogare tra loro in percorsi precisi ma ariosi, sempre con un’illuminazione impeccabile. Il che, assieme al fondo museale di rilevanza eccezionale, come si è detto, fa della Coleção Berardo uno dei musei d’arte contemporanea più belli che chi scrive abbia mai visitato.