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American Greenback. La costruzione di un patrimonio culturale

del

Nel 1626, il mercante vallone Peter Minuit, negoziatore per conto della Compagnia olandese delle Indie orientali, fece l’affare del secolo: sessanta fiorini risicati per comprare dagli indiani lenape il territorio che essi, nella loro lingua, chiamavano Manaháhtaan, una lunga e boscosa isola “dove raccogliere legno per costruire archi”.

Gli olandesi, con i loro fluyt dalla chiglia piatta, entrarono nella baia lacustre scoperta un secolo prima da Giovanni da Verrazzano, fondando Nuova Amsterdam nella punta meridionale dell’isola che si trovarono di fronte. Costruirono un muro trasversale per difendersi dagli attacchi delle bestie selvatiche.

Qualche secolo dopo, Nuova Amsterdam era diventata dominio inglese e si espandeva nel resto dell’isola di Manhattan. Il vecchio muro trasversale veniva abbattuto, ma il nome della via che ne prendeva il posto ne echeggiava il ricordo: Wall Street.

Quando la finanza americana avrebbe preso il volo, proprio lì sarebbero stati eretti palazzi mastodontici con portali degni delle cattedrali gotiche del nord Europa. Un tributo alla nuova religione dell’American Greenback, il verdone a noi italiani familiaregrazie ai doppiaggi cinematografici.

Fa strano girare per le silenziose vie del distretto finanziario la domenica mattina. La luce cristallina dell’oceano si riflette sui trenta e passa piani che lasciano in penombra il basso profilo greco della Stock Exchange, la borsa di Wall Street. Durante la settimana, dentro quelle mura, milioni di dollari potrebbero rendere ricco qualcuno quanto bruciarsi in un minuto.

La rocciosa solidità di questi edifici modanati è una giusta metafora della solidità su cui si fondava il primo capitalismo americano. Tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del secolo successivo, alcuni americani si sono ritrovati ricchi come nessun europeo era probabilmente mai stato.

Se c’era qualcuno che sapeva bene cosa i Morgan, i Rockefeller e i Frick dovessero farsene di tutti questi dollari, questi era sir Joseph Duveen, art dealer per eccellenza la cui storia, forse, è epitome stessa di come il moderno mercato dell’arte sia nato e si sia sviluppato.

Secondo la biografia a puntate pubblicata da Samuel N. Behrman nel 1952 sul New Yorker con l’eloquente titolo The Story of the Most Spectacular Art Dealer of All Time, “Duveen capì subito che la sua missione di educatore era duplice: insegnare ai milionari americani che cosa erano le grandi opere d’arte, ed insegnar loro anche che a queste grandi opere d’arte si poteva arrivare solo attraverso di lui”.

Complice la cronica mancanza di denaro dei vecchi collezionisti europei – perlopiù nobili senza più uno status -, il flusso unilaterale di opere d’arte dal Vecchio continente al Nuovo si intensificò esponenzialmente.

Se si dovesse riconoscere a qualcuno il merito maggiore per lo splendore della collezione Frick e di parte di quella del Metropolitan, quel qualcuno è proprio Duveen. Fu lui a costruire le fondamenta delle collezioni che sarebbero poi confluite nei celebri musei newyorkesi.

Fu lui a trattare per conto di Henry Frick l’acquisizione degli splendidi pannelli settecenteschi di Honoré Fragonard che sono tra i pezzi forti della sua collezione. Fu lui a comprare per lady Miller il meraviglioso Ragazzo in rosso di Francisco Goya oggi al Metropolitan.

Mecenatismo privato significava competizione virtuosa tra facoltosi. Solomon R. Guggenheim, il cui padre aveva fatto i soldi con le miniere, chiamò il più celebre architetto americano, Frank Lloyd Wright, per costruire una casa per la sua collezione. Il risultato è l’iconico edificio sulla Fifth Avenue, che ha obbligato ogni edificio museale successivo a cercare di essere un’opera d’arte a sua volta.

Il mecenatismo dei Rockefeller, poi, era straripante. Nel 1928, lady Abby e il marito John jr. Rockefeller, il cui padre aveva fatto i soldi col petrolio, decisero che anche New York dovesse avere un museo dedicato all’arte moderna: impressionisti francesi e modernisti del primo Novecento. Così nacque il Museum of Modern Art, colloquialmente detto MoMA.

Nel 1930, lo stesso Rockefeller comprò un terreno a Washington Heights, all’estremità settentrionale di Manhattan, e lo donò al Metropolitan. Sfruttando la scenografica conformazione del territorio, boscoso e collinare, la direzione del museo pensò che fosse il caso di aprire qui una succursale dedicata all’arte medievale.

Il museo medievale di New York – l’unico in America interamente dedicato al medioevo europeo -, è composto di parti originali di edifici dell’Europa meridionale, acquistati e riassemblati in un’architettura credibile e coerente: quattro chiostri, un campanile romanico, una cinta muraria.

Uscendo dalla subway in questa zona di Manhattan si comincia a respirare aria di sobborgo. Salendo la collina boscosa per arrivare al museo, intravedendo i bastioni, sembra di essere da qualche parte sull’Appennino. La vista che si ha dal terrazzo del museo, però, riporta inevitabilmente al Nuovo mondo. Qui, lo Hudson si restringe, la sponda rocciosa e verde del New Jersey è a un centinaio di metri appena. In lontananza, lo stato di New York si perde all’orizzonte, e poi il Massachusetts, e poi il Vermont.

Le risorse di un territorio apparentemente sconfinato hanno fatto la ricchezza dell’economia americana. L’American Greenback, il dollaro, è una valuta che non va mai fuori corso: si potrebbe tranquillamente pagare un iPhone con banconote del 1929.

I primissimi capitalisti americani riconoscevano ancora al Vecchio mondo quel prestigio e quella raffinatezza che forse a loro mancava. Oggi, alcune tra le migliori opere d’arte europee sono nei musei americani: come milioni di immigrati in passato, saranno anche nate in Europa, ma poi sono diventate pienamente americane. Il patrimonio culturale è universale e non ha limiti di cittadinanza.

Francesco Niboli
Francesco Niboli
Restauratore di dipinti antichi e contemporanei, ha intrapreso un percorso di approfondimento del design grafico e dell’arte del ‘900 italiano collaborando con Fondazione Cirulli di Bologna. Ha partecipato alla scrittura del libro "Milano, la città che disegna", catalogo del neonato Circuito lombardo Musei Design. Attualmente collabora come grafico con la casa editrice indipendente Sartoria Utopia.

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