L’estate è arrivata a New York con modalità meno estreme di quelle che hanno imperversato in Italia, a quanto so. L’attività delle gallerie d’arte di Manhattan in ogni caso non si ferma, anche se molte di esse offrono semplici Summer exhibitions, collettive di artisti storicizzati o viventi facenti parte del loro roster.
A Chelsea, comunque, l’offerta rimane sempre varia, interessante e di buon livello. Partiamo, ad esempio, dalla Miles McEnery Gallery (520 W 21th Street) che propone, fino al 16 agosto, una personale di Amy Bennett (n. 1977): una pittura di base iperrealista, in cui però è facile scorgere un retaggio hopperiano (l’artista, peraltro, è originaria del Maine). Le atmosfere sospese, inquietanti dietro un’apparenza di normalità quotidiana — che devono più di qualcosa anche alle fotografie di Gregory Crewdson — si concentrano, in buona parte delle 20 opere esposte (tutte olio su tavola), in formati minuscoli fino ai 10×10 cm, invitando così lo spettatore a uno sguardo ravvicinatissimo, quasi a farlo entrare nell’opera. Beneficiaria di numerosi premi e borse di studio da diverse importanti istituzioni, la Bennett ha esposto, oltre che negli Stati Uniti (inclusa una collettiva al Metropolitan Museum di New York), in Francia, Svezia e Giappone.
Proprio accanto alla Miles McEnery Gallery, al 522 della 21ma, è poi una delle sedi di Gagosian, dove è in via di finissage (26 luglio) — dopo essere stata prorogata di un mese rispetto alla chiusura prevista — una magnifica personale di Jeff Wall. Si tratta della prima sortita del fotografo canadese con la scuderia di Gagosian: nove le opere — per la maggior parte mai esposte precedentemente — di enormi dimensioni, quasi incredibili per la definizione dell’immagine. Straordinario il trittico I giardini/The Gardens (2017), realizzato nella Villa Silvio Pellico di Moncalieri: i tre lavori — i cui titoli individuali sono: Appunto/Complaint, Disappunto/Denial, Diffida/Expulsion Order — suggeriscono lo svolgimento di una storia tra due coppie, i padroni della villa e i loro servitori, che sembrano però essere in realtà un’unica coppia “sdoppiata” in ruoli speculari.
Bellissimi anche i paesaggi in mostra: Hillside, Sicily, November 2007 (in bianco e nero, con uno splendido taglio d’inquadratura sull’orizzonte curvo della collina); Daybreak (on an olive farm/Negev Desert/Israel) del 2011, che ritrae dei battitori d’olive beduini ancora dormienti all’alba di un giorno di lavoro con, sullo sfondo dietro l’uliveto, una delle maggiori carceri israeliane; Recovery (2017-18), una sorta di Grande Jatte rivisitata in chiave pop, con tutte le figure ritoccate in chiave pittorica in post produzione, tranne una (un ritratto dell’autore da giovane?), il cui sguardo è rivolto all’esterno del quadro.
Arriviamo infine al civico 555 dove la 303 Gallery festeggia i suoi 35 Years di attività con una collettiva (fino al 16 agosto). Questa galleria potrebbe ben rappresentare la storia di tanti spazi newyorkesi: aperta inizialmente al 303 di Park Avenue, si trasferì tre anni dopo nell’East Village, poi a SoHo nel 1989, per approdare infine — tra le prime a inaugurare il nuovo trend — a Chelsea nel 1996; la sede attuale, aperta nel 2016, è uno spazio strepitoso creato da Norman Foster + Partners ristrutturando un enorme magazzino. 31 gli artisti presenti in mostra — tra cui Stephen Shore, Richard Prince, Dominique Gonzalez-Foerster, Doug Aitken — anche se, onestamente, il livello delle opere esposte non è particolarmente notevole: i lavori migliori sono forse quelli di Collier Schorr (What? Are you jealous?, 1996-2013) e Alicja Kwade (Eadem Mutata Resurgo (Ref nr. 16) del 2016). Sono anche presenti memorabilia dalla storia della galleria: inviti, programmi, foto, articoli, price list (Richard Prince a 4.500$, Jeff Koons a 3.500 — nel 1985…).
Spostandoci più a nord sulla 26ma, andiamo al civico 524 da Paula Cooper, dove pure è in corso, fino al 16 agosto, una collettiva con grandi sculture e installazioni di Sam Durant, Liz Glynn, Kelley Walker, Meg Webster e Walid Raad. Particolarmente interessante il lavoro di quest’ultimo (nato in Libano nel 1967, vive e lavora a New York): una “prospettiva illusoria” che riproduce un ingresso del Metropolitan Museum of Art, ridotto in realtà a un fondale piatto e vagamente spettrale (Section 88_Act XXXI: Views from outer to inner compartments, 2010).
Per concludere la giornata, arriviamo alla 27ma per visitare le due sedi della Kasmin Gallery (297 10th Av.@27th, e 509 W 27th) dove sono in corso rispettivamente le collettive Painters of the East End e Levity/Density, anche queste fino al 16 agosto. La prima esplora la “parte femminile” di quel gruppo di artisti che a metà del Novecento, nel periodo seguito al costituirsi della “Scuola di New York” e all’affermarsi dell’Espressionismo Astratto, si trasferì all’estremità orientale di Long Island — nella parte chiamata South Fork, a 150 km da Manhattan, dove sono anche i cosiddetti Hamptons — alla ricerca di paesaggi naturali e tranquillità, nonché della possibilità di avere studi più grandi rispetto a quelli in città.
Si creò quindi una comunità un po’ bohémienne che fu essenziale per il confronto e lo scambio di idee ed esperienze tra gli artisti del gruppo. La mostra, come si diceva, si concentra sugli elementi femminili di quella comunità: tra loro vi erano Mary Abbott, Helen Frankenthaler, Elaine de Kooning, Lee Krasner, Joan Mitchell. (N.B.: oggi gli Hamptons sono una zona di gran lusso, dove hanno la villa di vacanza i magnati che per andare a Manhattan si muovono in elicottero…).
In Levity/Density sono invece esposte sette grandi sculture, di altrettanti artisti, accomunate da un’idea di aereità a contrasto con i materiali utilizzati. Immancabile la presenza di Calder, con il bellissimo mobile del 1966 Pads and shoots; pezzi storici anche Volton XIV I (1963) di David Smith e Druid’s Cluster (Swish) di John Chamberlain del 1975; c’è anche una scultura cinetica di George Rickey: Two Lines Up Excentric Gyratory II (1998). Gli altri artisti presenti sono Mark di Suvero, Joel Shapiro, e ritroviamo Alicja Kwade, la più giovane a esporre (n. 1979), con Unbestimmter Tausch (indefinite exchange) del 2014.