Il contributo italiano alla creazione del mito americano è notevole. Al di là del nome nostrano donato all’intero continente, basti considerare che l’aeroporto che serve Manhattan si chiama come il più celebre sindaco italofono della Grande Mela, quel Fiorello La Guardia che è solo il primo di una serie di majors le cui origini siano da ricercare nel Bel paese.
Ricorreva pochi giorni fa il quasi trentennale anniversario del sogno calcistico volatosene via insieme al rigore sparato da Roberto Baggio nel cielo di Pasadena, nella ahinoi celebre finale di Coppa del mondo persa nel 1994.
Baggio ha mancato di un soffio l’impresa di esportare il mito del calcio italiano nel Mondo Nuovo, mentre altri connazionali hanno avuto fortune diverse esportando eccellenze come opere d’arte, antiquariato e connoisseurship. Del resto, tra l’Otto e il Novecento il mercato americano era affamatissimo, perché i ricchi erano carenti di quello status symbol che è una costante dell’uomo di potere: la collezione d’oggetti d’arte.
In una serie di videointerviste ad alcuni grandi storici dell’arte condotte nel 1990 da Pierre Rosenberg, allora direttore del Louvre, Federico Zeri racconta alcuni dettagli croccantissimi sulla figura di Alessandro Contini Bonacossi, quel conte Contini sul cui feretro, nel 1955, si dice sia avvenuta la riconciliazione tra i due pesi massimi Bernard Berenson e Roberto Longhi.
Contini Bonacossi fu un grande intermediario tra il mondo antiquario italiano e l’estero.
Attorno agli anni Venti, venne a sapere dell’esistenza di Samuel Kress, ex minatore statunitense fondatore di una catena di negozi five and dime, specializzati nella vendita di piccola oggettistica domestica a poco prezzo, che l’aveva enormemente arricchito.
L’incontro fra i due sarebbe stato straordinario, se è vero l’aneddoto raccontato da Zeri: una volta tracciati gli spostamenti d’affari di Kress in giro per il mondo, Contini si fece sistematicamente trovare sulla stessa nave del magnate, esattamente nella cabina affianco. What a coincidence!
Per addolcirsi Mussolini e il suo governo – all’epoca si cominciava seriamente a prendere misure di regolamentazione per la fuoriuscita di opere d’arte e antiquariato dall’Italia, anche a scopo propagandistico, naturalmente – Contini consigliò a Kress di finanziare alcuni importanti interventi di restauro pubblico, il più sostanzioso dei quali fu quello del Palazzo Ducale di Mantova. Ancora oggi una targa ricorda il generoso contributo del mecenate americano.
Sarebbero attorno a duemila tra statue e dipinti le opere, secondo Zeri, con cui Contini costruì la collezione Kress, la quale divenne, poi, uno dei nuclei principali della National Gallery di Washington. Tra gli altri, grandissimi nomi di Old Masters come Giovanni Bellini, Domenico Beccafumi e Sofonisba Anguissola.
Contini era un uomo con uno straordinario fiuto per gli affari, con la sfortuna di vivere nella stessa epoca di un talento altrettanto grande. Mi riferisco all’inglese Joseph Duveen, il re degli antiquari, come fu soprannominato da Samuel Nathaniel Behrman in un bel ritratto pubblicato tra le colonne del New Yorker. Fu attraverso la società di Duveen che Kress si appropriò forse del pezzo più interessante di tutta la sua collezione, quella Santa Lucia scorporata dal Polittico Griffoni di Francesco del Cossa, e alienata a Bologna già nel primo Ottocento.
Per Contini Bonacossi, Federico Zeri spende molte buone parole, ma egli stesso può essere considerato un italiano che fece fortuna in America. O meglio ancora, uno che cominciò la sua fortuna grazie agli americani in Italia. Nel 1944, dopo la liberazione di Roma dal giogo tedesco, cercando di portare il proprio contributo economico alla difficile situazione familiare, Zeri si adoperò come cicerone per gli ufficiali americani tra le rovine del Palatino e dei Fori Imperiali.
Federico Zeri, giova ricordarlo, non era un mercante d’arte, ma il suo prodigioso occhio da connoisseur e l’attività di consulenza svolta per Vittorio Cini di Venezia, lo fecero avvicinare a Jean Paul Getty, il grande magnate del petrolio che a Malibu stava creando la sede permanente della sua grande fondazione. Getty e Zeri furono ottimi amici, e Zeri sedette nel consiglio d’amministrazione della fondazione fino al 1983, quando lasciò tra le polemiche in seguito all’acquisto per una cifra folle del celebre kouros presunto falso. Ma Paul Getty, all’epoca, era già morto da dieci anni.
In America, Zeri fu un grande compilatore di cataloghi, attività già svolta magistralmente in Italia con le collezioni romane della Galleria Spada e di quella Pallavicini. Il più bello, per sua stessa ammissione, è quello del Walter Arts Museum di Baltimora, che custodisce un prospetto di Città ideale che fa il paio con quella celeberrima di Urbino e che potete ammirare nell’immagine di copertina di questo articolo.
Col passare degli anni, Zeri rivedette le sue simpatie per l’America e per il mondo dei collezionisti americani, ma è vero che, in gioventù, ne subì il fascino come tanti italiani ed europei.
Un’America che, grazie anche al mito di Hollywood, appariva come un El Dorado di opportunità per dar libero sfogo alla sprezzatura, ovvero a quell’abilità di celare dietro apparente disinteresse una sicurezza estrema nell’agire e che, secondo Baldassarre Castiglioni, distingue lo spirito degli italiani dal Rinascimento in poi.