Nell’agosto del 2015, durante le vacanze estive – un periodo, si sa, in cui è data poca attenzione all’attualità specialmente se cronaca di guerra – giornali e telegiornali, improvvisamente, cominciarono a rilanciare a gran cassa immagini satellitari del sito archeologico romano di Palmira, antica e fascinosa città carovaniera del deserto, che evidenziavano distruzioni ingenti e impressionanti, specie per un luogo riconosciuto come Patrimonio dell’Umanità Unesco quindi, in teoria, sottoposto a vincoli e a tutele particolari.
La notizia ebbe innanzitutto l’effetto di aprire gli occhi su un conflitto, quello siriano, evidentemente ben più complesso e drammatico di quanto lettori e spettatori avessero allora coscienza.
Inoltre portò alla luce, ancora una volta, il problema della fragilità sofferta dai beni artistici, archeologici e storici in contesti di controversia internazionale.
È una costante della storia, che il patrimonio culturale sia uno dei primi obbiettivi in caso di guerra. Nel contesto di un conflitto armato, purtroppo, foss’anche alle porte dell’Europa, non c’è legislazione o convenzione internazionale che tenga.
Al di là delle diverse letture psicologiche, si può ipotizzare che sussista alla base dell’agire dell’aguzzino un piacere subdolo provato vedendo la propria vittima privata delle testimonianze tangibili della sua storia e della sua identità. Damnatio Memoriae. Più sinteticamente, potremmo quindi dire che tutto si riduce alla più viscerale delle paure dell’uomo: la perdita degli affetti sul breve termine, la perdita della memoria sul lungo.
Parlando con un amico, tempo fa, era venuta fuori la seguente, paradossale, domanda: se per salvare una vita umana, poniamo la meno meritevole sulla terra, dovessimo sacrificare un bene unico e irripetibile come la Cappella Sistina, cosa sarebbe giusto fare? Conservazione del singolo o del collettivo?
Non si scandalizzi nessuno, si tratta di una boutade tra amici, un ragionar per estremi che spesso rende possibile la libera riflessione, anche se, naturalmente, la risposta è scontata dall’inizio.
Questo paradosso, allora, serve piuttosto a riflettere sul perché certi oggetti – siano beni immobili (i monumenti), mobili o immateriali, secondo le classificazioni più moderne – assumano per la comunità, un valore così meritevole di essere difeso e preservato.
Senza scomodare la definizione canonica di Patrimonio culturale data dal Codice, caratterizzata da una certa rigidità tipica del “giuridichese”, possiamo formulare una definizione più pratica e immediata: è Patrimonio culturale quanto riconducibile alla sfera emotiva collettiva di una comunità di appartenenza. Secondo il ragionamento fatto sopra, sembrerebbe di sì.
La Convenzione di Faro, sul cui solco si muovono le riflessioni di questa rubrica, parla non a caso di “comunità patrimoniali”, di “diritto al Patrimonio culturale” e, al punto d dell’articolo 1, evidenzia il ruolo del Patrimonio culturale nella costruzione di una società pacifica e democratica.
Se la guerra prevede la distruzione del Patrimonio culturae, la pace necessita di fondarsi, invece, sopra di esso.