E’ passato ormai più di un anno da quando, tra un buon bicchiere di vino e una tartarre, l’amico Matteo Scuffiotti, mi fece sbirciare in uno dei “quaderni neri” di Massimo Gasperini, sussurrandomi che sognava di organizzargli una mostra. Impossibile, d’altronde, non rimanere colpiti da quelle visioni in cui l’architettura veste i panni dell’arte visiva, dando vita ad un dialogo interdisciplinare da cui parte una riflessione profonda sul ruolo dell’architetto e dell’architettura nella contemporaneità. Adesso, quel “sogno” è diventato realtà e le visioni di Massimo Gasperini dal 3 giugno prossimo saranno esposte alla galleria La Linea di Montalcino che Matteo ha coraggiosamente aperto abbandonando una avviata carriera da avvocato. Un’occasione troppo ghiotta per farsela sfuggire e, allora, eccoci qua con Gasperini a parlare delle sue Città analog(ic)he.
Nicola Maggi: Walter Gropius diceva che l’architetto inizia dove finisce l’ingegnere… e l’artista?
Massimo Gasperini: «Ho trascorso gli anni della mia formazione universitaria nel convincimento che l’architettura fosse riconducibile ad un mero fatto tecnico, una rigorosa disciplina dove il concepimento strutturale, tecnologico e funzionale anticipava e discerneva il ragionamento estetico, più strettamente relegato alla sfera artistica. Ho creduto che la disciplina architettonica avesse ormai abbandonato da secoli la visione rinascimentale dell’uomo-artista impegnato contemporaneamente tanto nell’attività creativa, quanto nella definizione di un fondamento scientifico dell’operare artistico. Questa mia radicale ideologia ‘tecnocratica’, ingenuamente molto distante da quel dilagante fenomeno speculativo che ha contraddistinto al seconda parte del Novecento per cui l’architettura era simulacro di una arte di cui il mercato si è servito per costruire l’abitare collettivo, è andata nel corso degli anni dissolvendosi. Oggi riconosco l’urgenza da parte dell’architettura di ritrovare la convergenza con l’arte e, soprattutto, il legame con le arti visive affinché possa esserci una riconquista di quell’alimento comune da cui traggono energia creativa. La storia insegna che quando questa unità delle arti si è manifestata, ovvero quando gli architetti e gli artisti hanno instaurato una sinergia collaborativa, i risultati sono stati al massimo livello. A proposito di aforismi, nel solco dei princìpi e delle ideologie, condivido il pensiero di Le Corbusier secondo il quale “L’architettura è un fatto d’arte, un fenomeno che suscita emozione, al di fuori dei problemi di costruzione, al di là di essi. La Costruzione è per tener su: l’Architettura è per commuovere”. Infine riguardo alla competenza (disputa) dei ruoli tra architetto e ingegnere tralascio il vasto repertorio umoristico e mi permetto di suggerire una modifica sostanziale all’affermazione di Giancarlo de Carlo secondo cui “L’architettura è troppo importante per essere lasciata [solo] agli architetti”».
N.M.: Il primo riferimento che viene in mente guardando i suoi lavori, sono le architetture (im)possibili di Antonio Sant’Elia…
M.G.: «L’opera di Sant’Elia, di Mario Chiattone, di Enrico Prampolini, di Virgilio Marchi, di Fortunato Depero e di molti altri autori della corrente futurista mi ha da sempre affascinato. Ciò che mi attrae delle loro ricerche (visioni), fonte di ispirazione di molti miei disegni, non è tanto la cifra reazionaria e rivoluzionaria che contraddistingueva i loro lavori, quanto piuttosto la forsennata ricerca formale verso una nuova città del futuro. In realtà il lavoro degli architetti futuristi costituisce un’occasione mancata rispetto alla larga visione di rinnovamento enunciata nel manifesto marinettiano: le loro “cattedrali urbane” fatte di centrali elettriche, di ciminiere, di acciaierie, di arterie, sono ancora fortemente ancorate alla tradizione urbanistica, assai lontane dalle aspirazioni futuristiche. Non so dire se il mio interesse per questo filone artistico derivi dalla predilezione che ho sempre avuto per lo studio del fenomeno urbano e per la sua rappresentazione, oppure dal forte convincimento che la “città nuova” non potrà mai ignorare ciò che l’ha preceduta; nel migliore dei casi potrà identificarsi con la sua storia attraverso la mutazione della sua immagine. Filtrare attraverso il disegno le visioni dei futuristi (ma anche degli avanguardisti legati al movimento costruttivista e suprematista, al surrealismo, fino a giungere ai metabolisti e al più recente filone radicale) mi serve per dispiegare al massimo la sperimentazione formale, alla ricerca di archetipi, di metafore, di modelli concettuali, di conflitti ideologici, senza peraltro incappare nella velleità della ricerca di un personale linguaggio architettonico».
N.M.: I lavori che presenterà alla Galleria la Linea per la sua prima personale partono da una riflessione sul significato stesso dell’architettura. Ci racconta qualcosa di più della sua ricerca artistica?
M.G.: «La mia ricerca artistica verte sul rapporto tra artificio, struttura e natura. Figure reali e artificiali si fondono per creare organismi immaginari, metafore architettoniche, paesaggi simbolici, epifanie di luoghi antropizzati. Forme ricercate con ossessione nelle pagine bianche dei quaderni, riflessioni sul passato (memoria) e sul futuro (divenire). Spazi immaginifici, trasfigurazioni di tracce a lungo osservate, studiate, esaminate con lo sguardo e con la conoscenza, riprodotte nei disegni, tratto dopo tratto. Il progetto che presenterò il prossimo 3 Giugno alla ‘Galleria La Linea’ di Montalcino, esclusivista della mia opera, documenta invero una sorta di corto circuito metodologico; un percorso parallelo alla mia visione della dimensione fenomenologica dell’architettura, non certo estraneo alla mia natura e alla mia formazione analitica. Un percorso che si svolge perlopiù nella sfera dell’immaginazione scaturito da un evidente disagio sul modo di percepire e vivere certe condizioni urbane. Mondi fantastici, archetipi, simboli, metamorfosi, espressioni inconsce condensate nelle forme disegnate riportano lo sguardo a una dimensione astratta, necessaria per riflettere sul significato stesso dell’architettura. Le città analog(ic)he sono artifici formali utili a descrivere città alla deriva, in fuga verso realtà ignote: strutture reticolari e monoliti finestrati si compenetrano senza soluzione di continuità, si sovrappongono alle preesistenze e si insinuano ovunque, in mare, nella terraferma, nel sottosuolo, affievolendo la speranza di ritrovare un rapporto con la natura. Esse sono distanti dai manufatti umani e dalla presenza dei loro creatori. Rimangono solo i segni del passaggio dell’uomo, della sua esistenza, attraverso i relitti architettonici. La città con i suoi spazi, fagocitata da nuove grandi strutture, genera nuovi complessi scenari urbani. Una perenne metafora della nostra società contemporanea, delle nostre ansie, delle nostre paure, del nostro dover essere perennemente moderni».
N.M.: Il titolo stesso che avete scelto per questa prima mostra, città analog(ic)he, ha un sapore molto critico nei confronti del suo lavoro e allo stesso tempo sembra tracciare un direzione per il futuro…
M.G.: «Cinquant’anni fa alla Biennale di Venezia Aldo Rossi espone la grande tavola intitolata La città analoga disegnata con Fabio Reinhart, Bruno Reichlin ed Eraldo Consolascio, una città immaginaria, iconica, composta da un collage, sovrapposizione di progetti dello stesso maestro milanese ed altri. Il titolo evoca la mescolanza di desiderio, sogno e ragione presente in ogni autentico progetto di architettura. L’immagine che ne deriva è un magma instabile che genera e consuma figure, un riferimento per chiunque tenti di restituire un significato autentico della città. I disegni appartenenti alla serie Città analog(ic)he traggono ispirazione da quella tavola tentando di estrapolarne i concetti più reconditi, al di fuori da ogni ambizione intellettualistica – peraltro difficilmente perseguibile ed impossibile da replicare – nell’illusione di rintracciare i principi di un approccio in cui la peculiarità tecnico-mnemonica della composizione architettonica, mediata dal disegnare, diviene processo di elaborazione per ricercare un’idea di città in cui definire i termini di un’espressione architettonica capace di evocare la continuità dei caratteri quanto di affrontare la contingenza dei bisogni. Perché ricercare una metafora escogitando una fusione dei due termini simili ‘analogia’ e ‘analogico’? L’analogia è il «rapporto di somiglianza tra due elementi costitutivi di due fatti od oggetti, tale da far dedurre mentalmente un certo grado di somiglianza tra i fatti e gli oggetti stessi», ma «è tanto più sterminata quanto più è immobile» è nella stasi, nella pesantezza del costruito, che può esplodere trionfante una piccola invenzione/variazione: «Cose diverse che s’illuminano, o acquistano luce diversa se accostate [… ]» tanto che «[…] l’analogia ad ogni confronto aumenta la nostra capacità di conoscenza» (Rossi, 1999). Nella tecnica letteraria – come nell’architettura e nelle arti figurative – il cambiamento con arte di una parola o di una frase da un significato proprio ad un altro ed è questo il traslato che i Greci chiamavano metafora e che Quintiliano indica come il primo e il più bello dei tropi (.,. tropus est verbi vel sermonis a propria significatione in aliam cum virtute mutatio). Ancora parafrasando Rossi «questa virtù che permette di mutare il significato della stessa cosa si avvicina al concetto di tecnica». Questa variazione di termini (di segni) produce il cambiamento di significato. Analogico è l’altro termine di raffronto. Il disegno analogico si contrappone al disegno digitale. Per la sua condizione di variazione continua (variabile analogica) può assumere un numero infinito di valori (possibilità e interpretazioni); in un probabile percorso logico si muove mutando la sua collocazione attraverso infinite posizioni impossibili da numerare e classificare. L’aspetto più interessante che mi sembra doveroso ricercare in questi miei tentativi di ‘ri-composizione formale’ è quello di porsi di fronte all’individualità dei fatti urbani. Che cosa distingue un fatto urbano da uno simile o da una sua riproduzione? Detto in altri termini: qual è l’‘essenza’ di un monumento e più in generale di una architettura e di una città? Ed è questa essenza descrivibile e riproducibile?».
N.M.: Un ripensare il significato della disciplina architettonica che è un trait d’union forte con l’opera di Gianni Pettena che, peraltro, ha curato i testi in catalogo.
M.G.: «Nutro una profonda ammirazione per il lavoro artistico e scientifico di Gianni Pettena, oltre che una grande stima per ciò che ha espresso in oltre quarant’anni di intensa attività. L’ho conosciuto alla metà degli anni Novanta alla Facoltà di Architettura di Firenze come docente incaricato di Storia dell’Architettura Contemporanea, insegnamento che seguii con grande entusiasmo. Sebbene il mio retaggio culturale sia profondamente diverso dal suo, non solo per lo scarto generazionale, siamo accomunati dall’amore per l’architettura. Siamo profondamente convinti che la disciplina architettonica, sfortunata per essere imprigionata dentro norme spesso frustranti, debba riappacificarsi con le arti visive, per ritrovare quel senso di laboratorio comune volto alla migliore gestione della crisi epistemologica. Nel periodo del movimento Radicale – Gianni è stato uno dei suoi fautori – nel totale sconfinamento tra le varie discipline creative, l’architetto e l’artista sperimentale tornano a produrre idee di spazio e di architettura con ogni strumento possibile e immaginabile: attraverso il disegno, la motion pictures, gli scritti, la performance. Pettena sin dall’inizio della sua attività si è schierato con quegli architetti e artisti poco inclini alla ricerca spasmodica del cliente preoccupati dai condizionamenti e da quella produzione progettuale influenzata dalla norma e dai codici, sviluppando idee di architettura temporanee vere e proprie ‘architettura per la mente’ come lui stesso le definisce. Il mio lavoro aspira alla costruzione, ossia a verificare attraverso la realizzazione la validità del mio pensiero sulla forma e sullo spazio. Il disegno è per me lo strumento critico d’eccellenza per il progetto. I miei taccuini costituiscono il lavoro a margine della stretta professione, completano in qualche modo ciò che ormai la professione stenta ad offrirmi»
N.M.: Adesso che il suo lavoro entra a pieno titolo anche nel mondo delle arti visuali, cosa vede nel suo futuro?
M.G.: «Rispondo a questa ultima domanda parafrasando Gianni Pettena il quale asserisce che “l’architettura è un linguaggio che può essere usato con naturalezza come ogni altro strumento per comunicare. Questo linguaggio non dovrebbe essere in alcun modo contaminato da un rumore di fondo che impedisce la sua corretta comunicazione. Il mio lavoro sperimentale è volto a riequilibrare questo gap tra realtà e immaginario. Auspico di proseguire questa ricerca entro i confini disciplinari aprendomi in maniera crescente alla contaminazione».