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Le domande d’identità non finiscono mai

del

Sta per finire un anno che ha visto accomunarsi due luoghi che apparentemente sembrano essere l’uno agli antipodi dell’altro, il Parlamento Italiano e l’importante manifestazione fieristica londinese Frieze. Domenica 5 giugno è entrata in vigore, dopo anni di dibattiti infruttuosi e di veti trasversali, il ddl Cirinnà (legge 76/2016), che disciplina le unioni civili tra persone dello stesso sesso (dal comma 1 al 35) e le convivenze di fatto, etero o omosessuali, prive di vincoli giuridici (dal comma 36 al 67). Frutto di un lunghissimo compromesso tra le varie anime della politica italiana. Pochi mesi dopo, l’edizione di Frieze London (6-9 ottobre) ha scelto, lasciando sbalorditi i più, di dedicare ai Nineties un’apposita sezione. Il curatore Nicolas Trembley ha chiamato a raccolta un indicativo gruppo di qualificate Gallerie perché, come ha scritto lo stesso curatore: «Non è il genere di cose che, normalmente, si vedono in una fiera. Ma rivela che le opere sono ancora attuali e che il mercato è adesso finalmente pronto per accoglierle». (Leggi -> Frieze 2016 e il ritorno degli anni Novanta)

Come vado sostenendo da anni e ho contestualizzato nel dicembre 2014 con il mio libro “Anninovanta 1990-2015. Un percorso nell’arte italiana” (“Gli Ori” Editori Contemporanei, Pistoia) gli artisti italiani degli anni ‘90, come tutti i “veri artisti” della storia dell’arte, sono stati degli “anticipatori”; ci hanno raccontato, con almeno 10-20 anni d’anticipo, come e dove le cose stavano andando. La maggior parte dei collezionisti, dei critici e degli addetti ai lavori non ha voluto leggere quello che essi, con le loro opere, ci stavano dicendo. Non era facile: nel tempo del “tranquilli siam qui noi”, quando tutti vivevano al di sopra delle loro reali possibilità, quando si era creata l’illusione che tutti potessero divenire proprietari di una casa pagando un mutuo e al tempo stesso continuando a spendere e spandere in aperitivi & Co., era più facile voltarsi dall’altra parte e ignorare “i messaggi” che questi Artisti ci stavano mandando. Loro erano lì con i loro quadri a dirci: “attenzione, questo sarà il futuro”; e noi ignoravamo tali avvertimenti. In pochissimi si sono fermati, anche soltanto per un attimo, ad ascoltarli, nessuno ha colto il messaggio e si è “messo in guardia”. Tutti hanno continuato a fare lo struzzo mettendo la testa sotto terra: meglio non guardare, meglio girare la testa dall’altra parte. (Leggi -> Libri – Anninovanta 1990-2015)

E una delle tante testimonianza di quanto gli Artisti italiani degli anni Novanta abbiano saputo essere “d’avanguardia” rispetto alla cultura del paese, è proprio l’approvazione della legge sulle unioni civili. Negli anni, tantissimi artisti hanno trattato questo delicato argomento con riferimenti più o meno forti e in parte espliciti nel loro lavoro. Nell’epoca pre-internet tali prove sono rimaste spesso silenti, andando disperse in qualche libro conservato in un fondo di biblioteca o come vago ricordo nel cervello di qualche appassionato d’Arte e/o addetto ai lavori. O comunque facilmente ignorate se non addirittura omesse, invece di riconoscere agli artisti i meriti che invece hanno indiscutibilmente avuto. L’esempio che riassume al meglio tutto questo è un lavoro dell’artista genovese Cesare Viel (Chivasso, 1964) dal significativo titolo Domande d’identità: un video girato a Milano nel maggio del 1999 e realizzato in occasione della mostra Luogo Comune, a cura di Alessandra Pioselli e Gabi Scardi, allestita all’Open Space dell’Arengario di Milano.

Viel, dopo aver fatto una serie di lavori in cui al centro vi era lui che parlava, o scriveva, una serie di frasi sulla “questione del genere” (un esempio per tutti: il video “Androginia”, del 1994, presentato al Museo di Rivoli), nel 1999 fu colto dal desiderio di una verifica dal vivo; di chiedere alle persone comuni che cosa pensassero di questioni riguardanti alcuni “stereotipi di genere”. Decise di riallacciarsi, idealmente, a quello straordinario film inchiesta di Pier Paolo Pasolini del 1965: Comizi d’amore. Un documento ormai storico di un’Italia in profonda trasformazione sotto i colpi del miracolo economico. Più di trent’anni dopo, Viel andò in giro per le strade di Milano con una telecamera (portata da Mario Gorni) per fare ai passanti domande su: omosessuali, matrimonio e adozione; sui maschi e sul loro uso di prodotti di bellezza; sulle opportunità di lavoro per le trans; su eventuali comportamenti discriminatori nel mondo dello sport, soprattutto nel calcio. Ne venne fuori un quadro deludente; un’Italia, o meglio, una Milano che ingenuamente credevamo emancipata e che invece si risvegliava rigida, scontata, chiusa in schemi mentali retrivi. Solo in pochissimi casi, eccezionali, trovò persone non contrarie all’adozione da parte di coppie omosessuali. Il video dunque riconfermava una generale adesione degli italiani a tic, a comportamenti tradizionali, a pregiudizi storici della nostra società che si pensava più avanzata.

Il lavoro, indiscutibilmente, deriva dalla sensibilità dell’artista, che gli ha permesso di sentire presente e vivo lo sguardo di Pasolini, il suo andare a sollevare questioni di solito rimosse, o credute erroneamente superate. All’epoca il lavoro suscitò un buon interesse da parte del pubblico, curiosità per lo più, e una corretta lettura di questo (come di molto del suo lavoro) dentro la dimensione/attitudine dell’arte relazionale. Ma nulla di più. Pochissimi critici (e coraggiosi) ne scrissero quasi clandestinamente.

Tornando a questo 2016, mi ha molto colpito come, proprio nei giorni dell’approvazione della Legge Cirinà, mentre in una lungimirante capitale Europea si stava già celermente lavorando al progetto della sezione che rileggeva gli anni Novanta, in questo paese, nessun critico, intellettuale, addetto ai lavori e/o semplice intervistato, abbia portato come contributo alla discussione il fondamentale e rigoroso lavoro che Viel sentì la necessità di realizzare in tempi assolutamente non sospetti rispetto al dibattito in corso.

Non voglio adesso stare qui a lanciar giudizi sugli altri, ma solo affermare una certa amarezza nei confronti di un ambiente culturale (quello italiano) un po’ distratto, un po’ pigro e forse un po’ conformista. Niente di così nuovo purtroppo: già Pasolini, Moravia, Natalia Ginzburg, Italo Calvino (per fare solo alcuni nomi che per Viel sono modelli di pensiero) lo avevano detto, visto, denunciato.

Oggi, grazie al web, tutto questo è destinato a cambiare: nessuno può ignorare quanto di buono è stato fatto dai nostri tanto bistrattati artisti italiani che, per l’appunto grazie a internet, rimangono a disposizione di tutti, non solo come testimonianza, ma a riprova di quanto essi siano stati anticipatori e siano ancor oggi attuali e meritevoli non solo di essere collezionati, ma soprattutto studiati, valorizzati, riconoscendo loro il merito che hanno avuto per la crescita di questa Nazione e della sua popolazione. Gli anni ‘90 sono la culla di una nuova sensibilità che trova la sua maturità negli anni 2000: ecco, è questa la storia che manca e che da anni sto quotidianamente scrivendo.

Roberto Brunelli
Roberto Brunelli
Forlivese, classe 1972, autore, critico d'arte e curatore di mostre, Roberto Brunelli è annoverato tra i massimi esperti della generazione anni ‘60 italiana ai quali ha dedicato “Anninovanta 1990-2015. Un percorso nell'arte italiana”. È inoltre coautore di “Investire in arte e collezionismo” e di “Chi colora Nanù?". Nel 2011 è stato tra i promotori di ShTArt - Manifesto del collezionismo 2.0 e della omonima mostra tenutasi a Milano.

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