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L’iconoclastia ha davvero un’efficacia politica?

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New York, 29 giugnoSull’onda delle (sacrosante ed efficaci) proteste che stanno infiammando gli Stati Uniti dopo la serie di omicidi a sfondo razzista che si sono susseguiti negli ultimi mesi, si è andato sviluppando un movimento revisionista rispetto all’iconografia di monumenti e opere d’arte del passato, che ha presto preso piede su entrambe le sponde dell’Atlantico.

Tra l’abbattimento e la vandalizzazione di alcune statue in luoghi pubblici e la proposta di rimozione di altre, ci si interroga anche sulla “correttezza politica” di molte opere di epoche passate presenti nei musei. In questo senso le ultimissime notizie riguardano un monumento newyorkese e alcuni dipinti presenti in un ministero inglese, oltre a un interessante articolo uscito pochi giorni fa su “Artribune” (sul quale occorre fare anche alcune puntualizzazioni).

Pare proprio che verrà rimosso il monumento a Theodore Roosevelt che troneggia davanti all’ingresso dell’American Museum of Natural History di New York. La scultura, opera di James Earle Fraser (1876-1953) realizzata nel 1925, ha il torto di raffigurare a cavallo il 26° Presidente degli Stati Uniti (Premio Nobel per la Pace nel 1906, in quanto mediatore decisivo nella guerra tra Russia e Giappone) accompagnato ai suoi lati da un nativo americano e un afroamericano, entrambi a piedi.

La statua di Theodore Roosevelt davanti all’ingresso dell’American Museum of Natural History di New York

In una nota ufficiale, la stessa direzione del Museo ha ricordato che «la statua è da tempo controversa a causa della composizione gerarchica», sottolineando come «la raffigurazione delle figure del nativo e dell’africano e il loro posizionamento siano razzisti».

In Gran Bretagna, dove il 7 giugno scorso a Bristol il movimento iconoclasta ha avuto inizio, ora ci si interroga invece su alcuni teleri che decorano la sede del Foreign Office, il ministero degli esteri del Regno Unito. I dipinti, opera del pittore inglese Sigismund Goetze (1866-1939), celebrano il trionfo dell’Impero Britannico, al culmine della sua espansione (il ciclo di opere fu realizzato tra il 1914 e il 1921), tramite la personificazione della Britannia troneggiante su altre figure allegoriche.

Alcune di queste, in particolare nel dipinto intitolato Britannia Mater Colonorum, rappresentano i dominii inglesi dell’epoca con posture o abbigliamenti che — secondo lo storico Alexander Mirkovic — mostrerebbero «la visione razziale del mondo della Gran Bretagna. I superiori anglosassoni mostrano i loro corpi nudi, ma con i lombi coperti; le razze subordinate, come gli indiani e gli arabi, sono completamente vestite, e l’ultima delle razze, quella degli africani, è rappresentata da un bambino nudo. Qui abbiamo una meta-narrativa razziale chiaramente impressa sul corpo».

Il dipinto “Britannia Mater Colonorum” del pittore inglese Sigismund Goetze

In uno scritto pubblicato su “Artribune” online del 26 giugno scorso (“Il Trionfo del Cretino Universale. In difesa di Gauguin”), infine, Stefano Piantini si è ricollegato a un articolo della giornalista culturale e musicista anglo-iraniana Farah Nayeri, uscito sul “New York Times” il 18 novembre 2019 e intitolato “Is It Time Gauguin Got Canceled?”. Va detto che Piantini, oltre a dichiararne la pubblicazione «qualche giorno fa» (immagino perché lo scritto è stato rilanciato sul sito www.reddit.com il 4 giugno scorso), ne fraintende poi completamente il tono, attribuendo all’autrice frasi e opinioni non da lei pronunciate o sottoscritte, ma dalle quali prende spunto la discussione su cui è incentrato l’articolo.

In margine a una mostra dedicata a Paul Gauguin, all’epoca in svolgimento alla National Gallery di Londra, la Nayeri sottolineava come, in maniera sconcertante, l’audioguida del museo chiedesse a un certo punto: «È tempo di smettere del tutto di guardare Gauguin?». Il tono di alcuni dei testi esplicativi che accompagnavano le opere in esposizione, inoltre, era del seguente tenore: «L’artista entrò ripetutamente in relazioni sessuali con giovanette, “sposandone” due e procreando con loro.

Gauguin approfittò senza dubbio del suo status privilegiato di “occidentale”, per sfruttare al massimo la libertà sessuale permessagli». La frase incriminata riportata da Piantini — «Sarebbe meglio non esporre nessuna opera del pittore parigino perché ebbe relazioni con quattordicenni polinesiani [sic!]» — in realtà non compare affatto nell’articolo originale, che mette invece a confronto diverse opinioni sull’annoso problema di come il comportamento nella vita privata di un artista possa influenzare il valore delle sue opere da un punto di vista etico.

Una vista mostra dedicata a Paul Gauguin alla National Gallery di Londra nel 2019

In ogni caso, Piantini giustamente si domanda se in futuro, in nome del politically correct, dovremo rimuovere, distruggere o tumulare «in appropriati Depositi della Vergogna, privi, ovviamente, delle facilities per la loro conservazione», oltre ai dipinti di Gauguin anche i lavori di Leonardo da Vinci — visti i suoi “inopportuni” traffici con fanciulli minorenni — o quelli di Picasso, vero mostro nei suoi rapporti con le donne; l’autore ricorda anche la querelle riguardo al dipinto Thérèse Dreaming di Balthus, conservato al Metropolitan Museum di New York, di cui periodicamente si torna a chiedere la rimozione dall’esposizione al pubblico.

Personalmente credo che la memoria storica possa funzionare anche come memento per il futuro. Rimuovere simboli o testimonianze di una temperie culturale di un’epoca passata — per quanto essa sia discutibile e criticabile — può in realtà portare semplicemente a una rimozione dei problemi che segnarono quel periodo storico.

Si sa che la storia la scrivono (o la riscrivono) i vincitori, ma quando la coscienza sociale cambia, sono proprio i residui celebrativi delle epoche passate a farci riflettere sul mutamento dei valori. Non è il manicheismo, ma la conoscenza e il dibattito dialettico che possono influenzare le coscienze, portando le persone a ragionare e a sviluppare un’idea diversa dei fatti, confrontando visioni del mondo differenti.

È quello che aveva capito Pier Paolo Pasolini in alcuni suoi scritti “scomodi” (a partire dalla famigerata poesia sugli scontri di Valle Giulia del marzo 1968); è quello che non capiscono registi come Ken Loach o Michael Moore con la loro raffigurazione del mondo rigidamente diviso in ontologicamente “buoni” e “cattivi” — alla fine non così lontana dall’esecrata opposizione “indiani/cowboy” dei western di un tempo (che oggi appunto contestiamo perché possiamo leggerli con altro occhio).

Per tornare agli Stati Uniti, al momento tutte le istituzioni culturali, tutti i musei americani stanno orientando la loro futura programmazione in chiave black, in uno di quei tipici fenomeni in cui l’identità razziale, etnica, sociale passa davanti a qualsiasi considerazione di effettivo valore estetico (siamo appunto nel mondo del politically correct, no?). Ma alla lunga come andrà a finire?

Qualcosa mi dice che per qualche mese non si parlerà d’altro che di cultura e società afroamericana, di discriminazione sociale e razziale, e poi per altri dieci anni i problemi passeranno nel dimenticatoio, fino ai prossimi clamorosi atti di violenza nei confronti della popolazione di colore o di altre comunità minoritarie.

 

In realtà una maniera per cambiare davvero lo stato delle cose, in questo momento negli Stati Uniti, ci sarebbe: andare a votare. Se la comunità afroamericana andasse in massa a votare alle prossime elezioni presidenziali di novembre, potrebbe fare sì la differenza. Ma il meccanismo del voto negli Stati Uniti è perverso: bisogna iscriversi a liste elettorali, poi affrontare lunghe code ai seggi (che in tempi di Covid-19 minacciano di essere eterne) e quindi soprattutto — visto che tradizionalmente si vota di martedì — perdere una giornata di lavoro, il che è di non poco peso per i ceti meno abbienti, tanto più negli ambienti afroamericani.

È per questo che la percentuale di votanti nelle elezioni statunitensi è in genere bassissima (spesso si aggira sul 30% dei potenziali aventi diritto, non di più), e che l’elettore medio è bianco, borghese (diremmo noi) e di mezza età. Questo spiega tante cose…

Joe Biden, come tanti prima di lui, sta insistendo — in questa circostanza eccezionale legata all’epidemia — perché il voto possa svolgersi anche per posta, e non a caso lo pseudo-Presidente in carica rema decisamente contro… ma se infine la comunità black, oltre a protestare nelle piazze, portasse la sua protesta anche nelle cabine elettorali, forse qualcosa potrebbe cambiare davvero. E le statue, pur rimanendo al loro posto, non avrebbero nessun peso politico.

Sandro Naglia
Sandro Naglia
Nato nel 1965, Sandro Naglia è musicista di professione e collezionista d’arte con un interesse spiccato per gli astrattisti italiani nati nei primi decenni del Novecento e per quelle correnti in qualche modo legate al Pop in senso lato (Scuola di Piazza del Popolo, Nouveau Réalisme ecc.).

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