Il nuovo va sempre scovato e lo si può trovare anche in piccoli elementi. Ecco allora che l’opera di Enrico Versari, artista faentino classe 1975, ci appare tremendamente contemporanea nella sua figuratività che fa i conti con la tradizione artistica italiana, dal rinascimento di Antonello da Messina e Piero della Francesca al Realismo Magico di bontempelliana memoria, trasportandola nel XXI secolo. «La mia avanguardia è il ritorno al disegno – mi spiega -, dopotutto il segno è alla base della percezione ed è un ottimo strumento di indagine filosofica su ciò che appare. Eliminando il “velo di Maya” che ottenebra la vista il disegno potrebbe svelare la cosa in sé e per sé!». Parole che suonano quasi come una piccola provocazione se si pensa al contemporaneo che, abitualmente, fa parte del cosiddetto mainstream, ossia la corrente dominante. E controcorrente è lo stesso approccio di Versari alla produzione artistica che lo distingue in modo netto in un panorama artistico in cui, ormai, non ci stupisce più niente. Laureato in estetica, con un passato di design industriale e di docente di teoria della percezione alle spalle, Enrico Versari, con i suoi lavori, si contrappone al frastuono virtuale e veloce della contemporaneità. «Attraverso loro – mi dice – torno ad un fare pratico, empirico, espresso attraverso un mezzo semplice».
Nicola Maggi: Nei tuoi lavori non esiste una parte che non sia creata da te. Come nascono le tue opere?
Enrico Versari: «Sì, tendo a fare tutto: costruisco la tavola e preparo il fondo, usando anche ricettari antichi. Ultimamente ho fatto tutta una serie di lavori con la tecnica rinascimentale dello sgraffio: si fa una doratura del fondo e poi si copre tutto con un pigmento. Con un punteruolo, poi, si scalfisce questa superficie liberando la luce del fondo. Un tipo di tecnica che ha molto a che fare con il mondo dell’acquaforte e dell’alchimia: ricercare la luce non attraverso la finzione, ma con il metallo. Mi piace molto questo processo di ricerca nell’uso dei materiali. Preparo sempre 4 o 5 tavole alla volta, con fondi diversi, dopo di che cerco di ragionare sugli elementi. E questo processo, che è anche piuttosto lungo, mi chiarisce le idee e mi fa lavorare dal punto di vista della ricerca di un dialogo tra i simboli che staranno in questo spazio che ho creato. La lentezza. Ecco, il mio lavoro è anche un elogio alla lentezza, il voler prendersi il tempo di poter ragionare e concentrarsi».
N.M.: Per i tuoi fondi usi spesso carte geografiche e pagine di vocabolario ormai “scadute”…
E.V.: «La mia volontà è quella di far dialogare con l’opera e, allo stesso tempo, di mettere in crisi lo spettatore per far sorgere in lui la domanda : “Cos’è apparenza e cosa è reale?”. Le carte geografiche, come le pagine dei vocabolari ad un certo punto scadono, perché i confini cambiano e il linguaggio si modifica. Le mappe, in particolare, su cui mi sto concentrando ultimamente, mi permettono di creare delle geografie inesistenti, ritagliandone dei pezzi e rimontandoli sulla tavola in modo che lo spettatore trovi vicine due città che nella realtà sono magari lontanissime. Un’allegoria di una società informatica che elimina i confini, le distanze, avvicinando esperienze e mondi molto lontani. Su questi fondi, poi, dipingo intervenendo con elementi anche molto simbolici. Tutto parte, comunque, dal tema della fenomenologia: capire cosa l’occhio vede e usare un insieme di segni, di tecniche e una sovrapposizione di stili diversi. Talvolta uso degli elementi bidimensionali su cui lavoro con la tridimensionalità. O uso vari tipi di prospettive, quella geometrica o quella inversa. Insomma cerco di utilizzare tutti gli elementi che fino ad oggi sono serviti per rappresentare, sottolineando che non esiste un buon modo di rappresentazione, ma che la rappresentazione è sempre valida in tutti i sensi. Quello che appare è una contaminazione di vari elementi che dialogano insieme. Non linearità cronologica, ma stratificazione geologica: una storia che è fatta di vari livelli di profondità».
N.M.: Da questo rapporto che crei tra fondi e oggetti, si origina una profonda riflessione…
E.V.: «Quello dei simboli è un mondo straordinario, che mi pormette di portare avanti una vera e propria ricerca filosofica su ciò che appare. La loro decifrazione insegna ad osservare il proprio cervello che, mediando tra realtà e finzione, si analizza. Penso che la pittura e l’arte non abbiano niente a che fare con il bello, ma siano un processo di conoscenza. Sono uno sviluppo che, piano piano, stende le cose, le fa capire meglio e, poi, guardandomi indietro mi accorgo del percorso fatto».