Breve ma veridica storia dell’opera d’arte in mutamento
In un passaggio sulla Dormitio Virginis del Mantegna, Roberto Longhi annotava che nel Cinque e nel Seicento “la moda dominante, aulica per eccellenza e decorativa, si accomodò a mutilar dipinti nello stesso spirito con cui si affrettava ad accrescerli per via di giunte; ogni volta, cioè, che lo chiedessero le più generiche esigenze distributive e architettoniche di una galleria; ora per creare un ‘accompagno’, come si diceva, fra dipinti affini ma di formato diverso, ora per servire l’andamento e le misure degli stucchi, delle scorniciature, dei sopraporta, e via dicendo”.
Un intervento emblematico di quanto sopra descritto fu, ad esempio, quello presso la corte estense, dove il Bastianino “zunta e istuca” tele del Mantegna, del Correggio e di Raffaello per i duchi di Ferrara. Allo stesso modo fece Hans von Aachen, allargando alcune tele per Rodolfo II a Praga, o Johann Georg Fischer, trasformando i laterali dell’Altare Paumgartner di Dürer in vedute botaniche per Massimiliano di Baviera. In queste officine di corte, il dipinto non era più un singolo pezzo, quanto piuttosto una tessera d’arredo, modellabile come un drappo secondo l’ordine architettonico o gli equilibri espositivi degli spazi.
Nel 1625 Vicente Carducho, a Madrid, ingrandisce tre Tiziano destinati all’Alcázar, mentre Velázquez ritocca i suoi stessi ritratti di corte per farli resistere alla moda tonante del “colossal barocco”. In Francia, l’operazione si fa sistematica: Charles Le Brun, garde des tableaux di Luigi XIV, modifica, ingrandisce, taglia dipinti celebri per uniformarli alle modanature e agli arredi di Versailles.
Quella che Longhi descrive non è, a dire il vero, una semplice moda, ma parte di una lunga metamorfosi dell’oggetto opera d’arte, chiamato a cambiare pelle per assecondare i mutamenti di gusto, spazio e finalità di chi lo possiede. La metamorfosi, cioè, del collezionismo privato, che si avvia lentamente verso l’epoca delle grandi collezioni e poi dei musei nazionali.
A fine Settecento, e soprattutto nell’Ottocento, infatti, il centro di gravità scivola dalla dimensione privata a quella pubblica. Nel nuovo tempio laico dell’arte, il museo nazionale, i curatori prediligono una lettura coerente delle sale: le tele provenienti da chiese o collezioni private arrivano spesso senza cornici, o con cornici giudicate troppo arcaiche. Si ricorre allora a cornici di riuso, acquistate in blocco o riadattate.
Al Prado, nel pieno del XIX secolo, il gusto ufficiale impone cornici barocche “internazionali”: gigli, cartocci, foglie d’acanto che ingabbiano opere nate per un contesto liturgico magari sobrio. Molte cornici sono coeve ma non originali dei dipinti, riadattate ad arte per dare unità di stile. Non mancano, in questo processo, gesti radicali: accorciare i bordi di una tela per farla entrare in una cornice ottocentesca, o cucirvi assieme aggiunte che ne cambino la forma.
Curioso notare come nel 2018, il Louvre abbia dedicato una mostra proprio al suo ricco patrimonio di cornici, esposte per l’occasione prive di dipinti, “nude” in se stesse. Il filosofo Georg Simmel diceva che la cornice è un mediatore tra la dimensione dell’opera e quella del mondo esterno. Spesso, quindi, la sua funzione di confine ne limitava l’interesse specifico di studio e conservazione. È importante, però, che musei e collezionisti rammentino che possedere un patrimonio di cornici significa spesso possederne uno di informazioni sommerse riguardo a un mondo tangenziale alla creazione dell’opera d’arte fatto di maestranze, carpentieri e artigiani-restauratori.
In questa stessa stagione di “accompagni” delle opere alle nuove necessità espositive, cominciano anche a nascere la moderna coscienza e prassi del restauro. Già nel 1604 Giambattista Marino lamentava che il Cavalier d’Arpinonon riuscisse a imitare la maniera di Bernardo Castello senza lasciare tracce troppo fresche. Nel Seicento, Theodor de Mayerne compila ricette di bottega che preludono al beverone settecentesco: la mistura di olio, ocra e litargirio colata sul retro delle tele. Verso fine secolo la foderatura si fa prassi: Annibale Carracci al Louvre, Veronese e Guercino nelle collezioni reali francesi, Lanfranco per i Chigi a Roma. Ogni operazione cerca di mascherare lo “strappo” tra vecchio e nuovo, finendo spesso per lasciarne uno più visibile.
Tutto questo oggi resta come stratificazione sui dipinti, talvolta salvati, talvolta menomati nella loro natura originaria.
Se cambiano il pubblico e l’architettura, resta però identico il destino del quadro: un manufatto vivo, sottoposto a un continuum di trasformazioni che comincia sotto le volte di una cappella rinascimentale e prosegue, senza soluzione di continuità, sulle pareti bianche di un museo contemporaneo.