Cosa misurate se volete fare una dieta? E se volete smettere di fumare? E se volete misurare quanto consuma la vostra auto?
Banale, no? Ma non per tutti, a quanto pare.
Non è banale ad esempio per il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, e di tutti i “misuratori” della cultura, che si ostinano a misurare i Musei su dati esclusivamente quantitativi.
Qualità o quantità? Come misurare le performance dei musei
C’è un corto circuito, su questo tema, che ha del paradossale: da un lato c’è un Ministero, storicamente accentratore e portatore di una visione statalizzata della cultura che però misura il successo o l’insuccesso dei musei sulla base di numero di ingressi; dall’altro ci sono liberisti (o almeno tacciati tali) che invece premono per avere una misurazione meno “sterile” della cultura.
La questione, in realtà, è un po’ meno politica e un po’ più tecnica di così ed affonda in un principio di coerenza tra obiettivi (annuali e/o triennali) e le funzioni di monitoraggio e controllo.
Lasciando da parte dunque le polemiche sullo stato dell’arte, è forse il caso di approfondire in che modo i Musei debbano misurare le proprie performance.
Il dato quantitativo è solo una parte della conoscenza: è ormai necessario capire “chi” va in un Museo e in che occasione; se è utente abituale o se è la prima volta che fruisce delle collezioni; se fa una breve passeggiata o si trattiene per più di tre ore; se è rimasto 10 minuti di fronte ad un’opera o se invece ha fatto solo una rapida carrellata.
Ma c’è di più: per poter strutturare delle strategie di intervento razionali, sarebbe il caso di dotare i musei di sistemi di rilevazione che consentano di comprendere i gusti del singolo visitatore, cosa della visita lo ha lasciato soddisfatto o insoddisfatto, se ha condiviso la propria esperienza sui social (e in che modo), se ha comprato al bookshop o in caffetteria.
Stretti tra statistica e politica…
L’utilizzo prevalentemente elettorale che è stato fatto della statistica negli ultimi anni ha portato ad una profonda discrasia tra gli obiettivi statutari del Museo e quelli Ministeriali, privilegiando questi ultimi a discapito della qualità delle iniziative che sarebbe stato possibile realizzare.
Il risultato è lampante: le aziende di “merendine” ormai sanno tutto (o quasi) dei loro clienti, e i Musei invece non ne sanno praticamente nulla. Le statistiche sulla fruizione non fanno altro che snocciolare, uno dopo l’altro, numeri privi di qualsivoglia utilità qualitativa.
Ricordiamo la definizione ICOM dei Musei: Il museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società, e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, e le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, istruzione e diletto.
In che modo, dunque, le statistiche di fruizione dei beni culturali mostrano quanto l’attività dell’Istituzione Museale sia stata in grado di perseguire i propri obiettivi statutari? Nessuno. Punto.
…ma così è impossibile avere una strategia
Non sappiamo quanto siano stati efficaci gli interventi didattici, quanto abbiano appreso i visitatori, quanto siano state ben comunicate le testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, non sappiamo se la fruizione abbia realmente generato diletto.
Sappiamo soltanto che, complici le aperture gratuite, un certo numero di persone è passato in un museo. Il manager di un centro commerciale rimarrebbe inorridito di fronte a tale superficialità.
Allora è il caso che i Musei, in primis, inizino a mostrare una consapevolezza del loro ruolo: è necessario che per primi mostrino di voler essere “misurati” su qualcosa di più approfondito rispetto al numero di visitatori.
Sia essa la capacità di creare sostenibilità economica per il Museo, la capacità di raggiungere pubblici differenti, o, piuttosto, l’incremento di conoscenza legato alle opere presenti nel Museo.
Sapere se i Musei sono o non sono frequentati non basta più. Era una cosa che sembrava chiara fin dall’inizio del 2000. Eppure, ancora oggi, agli occhi di molti, sembra un concetto pionieristico.