Molte volte le idee più semplici sono anche le migliori. Un caso lampante è quanto stanno facendo le principali case d’asta occidentali (Christie’s e Sotheby’s) nei nuovi mercati, in primis la Cina, per fidelizzare i clienti, crearne dei nuovi e contrastare l’ascesa di aggressivi competitor come la cinese Poly International: dar vita a programmi educativi sull’arte contemporanea e sul collezionismo. Un modo concreto per dare una risposta rapida ed efficace alla crescente domanda di conoscenza che proviene dalle fasce più abbienti di questi paesi, secondo un modello che, con le relative rivisitazioni, potrebbe essere applicato anche in Italia.
Nell’ultimo anno e mezzo, alla luce del crescente interesse per i beni di lusso e per l’arte contemporanea, la Cina è stata oggetto di un vero e proprio boom di corsi e programmi educativi pensati appositamente per i ricchi collezionisti orientali. Ultima in ordine di tempo, l’iniziativa della Davidoff Art Initiative che, proprio in queste settimane, ha fatto partire ad Hong Kong una prima serie di Dialoghi sull’Arte, organizzata in collaborazione con UCCA (Ullens Center for Contemporary Art) di Beijing.
«Queste conversazioni – ha spiegato Philip Tinari, direttore di UCCA, al magazine cinese online JingDaily – è stata l’occasione per mettere insieme tre collezionisti cinesi, molto diversi tra loro, davanti al pubblico, ed esplorare, in un ambiente rilassato ed intimo, le questioni che devono affrontare e, per estensione, l’intero mondo dell’arte». Il programma elaborato dalla Davidoff, infatti, non consiste in una semplice conversazione sul collezionismo, sul tipo di quelle che si tengono anche in Italia, ma è pensato per affrontare temi chiave che vanno dalla stessa comprensione dell’arte contemporanea fino ai principi economici e culturali che stanno alla base dell’investimento in arte.
Terminata questa prima serie di incontri, nella primavera del prossimo anno se ne terrà un’altra a Beijing di approfondimento sull’arte contemporanea cinese con l’obiettivo di fornire «a famosi collezionisti e ad altre figure chiave della scena artistica cinese ed internazionale, l’accesso diretto ai diversi aspetti del collezionismo d’arte».
Quella della Davidoff Art Initiative, società nata per sostenere lo sviluppo del sistema dell’arte nei Caraibi e oggi partner associato di Art Basel, non è la prima. Fin dal 2011, come detto, già Christie’s e Sotheby’s, con corsi analoghi, puntano a coltivare in Cina, come in Russia e Brasile, una nuova generazione di mecenati e collezionisti. Se ci pensate bene, niente di fantascientifico: la Cina, in pochissimi anni, è diventata la principale piazza dell’arte, almeno in termini di volume di scambi, ed è naturale che chi vende arte si adoperi per garantirsi il futuro in un paese dove la ricchezza è in costante crescita e dove l’arte, sulla falsariga dei modelli occidentali, è vista già come un importante status symbol e un modo intelligente di investire i propri capitali, non per forza con fini meramente speculativi. E’ l’offerta che va incontro alla domanda mettendo in campo le più “banali” regole del marketing.
Tutto questo, ovviamente, avviene nei cosiddetti BRIC e, in primo luogo, in Cina, dove, come detto, i nuovi ricchi crescono di anno in anno. Più difficile che un investimento di questo genere Christie’s, Sotheby’s o la Davidoff di turno lo facciano in un paese come l’Italia che fatica a mantenere le sue posizioni sul mercato dell’arte e dove i ricavi delle aste, solo nel 2012, sono crollati del 23,8%. Ma se non ci si può aspettare un intervento da parte delle multinazionali del mondo delle aste, ci si potrebbe attendere un maggior impegno da parte di altre realtà del Sistema italiano dell’Arte.
Nel nostro paese abbiamo un’offerta formativa per gli artisti (Licei, Accademie ecc.) e per i curatori. Nessuno, però, sembra interessarsi a chi, alla resa dei conti, l’arte dovrà fruirla e, si spera, acquistarla.
Non se ne cura lo Stato, che ha praticamente cancellato, dai programmi delle Scuole secondarie, l’insegnamento della Storia dell’Arte.
Non se ne cura la maggior parte delle nostre Gallerie d’Arte che, negli anni, hanno perso il loro ruolo storico di diffusione della cultura del contemporaneo con il risultato, lo abbiamo detto più volte, di essere visitate solo in occasione dei vernissage.
Non se ne occupano i nostri musei d’arte contemporanea che, visti i tempi che corrono, è già tanto se riescono a r-esistere.
Se ne curano, poco e in modo parziale, le nostre Fondazioni. Una per tutte la Fondazione Giovanni e Marella Agnelli di Torino che, periodicamente, organizza degli incontri molto interessanti con i principali collezionisti italiani a cui mancano, però, quei risvolti pratici e quell’attenzione per l’arte nazionale che, invece, abbiamo visto nei programmi cinesi.
Eppure in Italia un interesse per l’arte contemporanea c’è. Non sarà eclatante come in altri paesi ma è vivo, specie nelle generazioni più giovani, tra i liberi professionisti e le imprese, in particolare quelle che operano in settori come la moda o il design. Un bacino di utenza potenzialmente enorme su cui, forse, dovremmo lavorare di più per fare in modo che divengano i collezionisti (consapevoli) di domani.
Probabilmente dei programmi educativi sul tipo di quelli nati per il mercato cinese non risolverebbero tutti i problemi, ma certamente aumenterebbero l’attenzione del pubblico per la giovane arte italiana e farebbero scoprire, ai tanti amanti dell’arte contemporanea, che in Italia, oggi, si può comprare buona (e buonissima) arte a prezzi ragionevoli.
Come per altri settori della nostra economia, il mercato dell’arte italiano soffre perché, in primo luogo, manca la domanda interna. Credo sia giunto il tempo di crearla, investendo in programmi educativi e in informazione, così da ampliare le conoscenze del pubblico, sia sull’arte contemporanea in generale sia sulla nostra scena artistica odierna, ed insegnando, se non proprio a collezionare, a comprare arte e far capire che collezionare arte contemporanea, specialmente per il mondo dell’impresa, può rappresentare un ottimo investimento, non tanto in termini speculativi, ma di immagine e di produttività.
Sicuramente il nostro sistema dell’arte ha bisogno di tanti altri interventi a livello strutturale, ma questi saranno completamente inutili se non si inizia, contemporaneamente, a creare un nuovo collezionismo. Se migliaia di persone sono disposte a spendere da 500 a 900 euro per un iPad di ultima generazione, siamo proprio sicuri che, se opportunamente stimolate ed educate, non se ne trovino altre migliaia, amanti dell’arte, disposte a valutare l’opportunità di comprare un’opera d’arte? In particolare con la prospettiva, a differenza degli strumenti tecnologici, che questa si rivaluti nel tempo sia dal punto di vista culturale che economico?
Forse è solo un’idea balzana ma credo che una riflessione dovremmo farla tutti.
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