Non tutti sanno che New York City, geograficamente parlando, è un piccolo arcipelago. Dei cinque borough che ne costituiscono l’area metropolitana — Manhattan, Brooklyn, Queens, Staten Island e Bronx — solamente quest’ultimo è in terraferma.
Manhattan e Staten Island sono di fatto isole (la prima collegata alla terraferma da ponti), mentre Brooklyn e Queens sono la parte più occidentale di Long Island, un’isola lunga quasi 200 chilometri (donde il nome) che si va come progressivamente assottigliando verso oriente, biforcandosi nella sua parte terminale.
La parte sud di questa “forchetta” (nota appunto come South Fork) è conosciuta anche come The Hamptons, dal nome di villaggi e cittadine che si susseguono sulla sua costa: Westhampton, Southampton, Bridgehampton, East Hampton… fino ad arrivare a Montauk, sull’estrema punta orientale dell’isola, con un grande faro che dà sull’Oceano.
Gli Hamptons ricoprono un’importanza storica nell’arte statunitense del Novecento. A cavallo tra XIX e XX secolo cominciarono a essere mèta, e poi casa, di paesaggisti attirati dalla luce particolare, dalle grandi spiagge e dalla natura incontaminata del cosiddetto East End.
Dopo che Samuel Colman (1832-1920) e George Henry Smillie (1840-1921), due pittori influenzati dalla Scuola di Barbizon, iniziarono a esplorare questi luoghi per la pittura en plein air, fu Thomas Moran (1837-1926) — i cui paesaggi di Yellowstone Park convinsero il Congresso a creare il primo parco nazionale nel 1870 — a stabilire nel 1884 il suo studio a East Hampton, dando inizio a una vera e propria comunità artistica, che si arricchì presto dell’impressionista William Merritt Chase (1849-1916).
Chase fondò nel 1891 la Summer Art School and Village a Shinnecock Hills e, sette anni dopo, il suo mecenate — il ricco avvocato newyorkese Samuel Longstreth Parrish (tenete a mente questo nome) — creò a Southampton il primo museo d’arte dell’East End.
Ma è soprattutto nel secondo dopoguerra, negli anni della cosiddetta “Scuola di New York” e dell’Espressionismo Astratto, che gli Hamptons acquisirono un ruolo centrale nell’arte statunitense.
Alla ricerca di paesaggi naturali e tranquillità, per gli artisti si aggiunse la possibilità di avere studi più grandi e a minor costo rispetto a quelli in New York City.
Nel 1947 Robert Motherwell trasformò una Quonset hut — ovvero una di quelle tipiche strutture prefabbricate di acciaio zincato e forma semi cilindrica, prodotte durante la Seconda Guerra Mondiale — nella sua casa-studio dalle parti di Georgica Pond.
Il buon mercato immobiliare attirò anche Jackson Pollock e Lee Krasner, che si stabilirono a Springs (dove si può tuttora visitare la loro casa); li seguirono presto nell’East End Willem e Elaine de Kooning, e poi Mary Abbott, Helen Frankenthaler, Joan Mitchell, Mark Rothko, Franz Kline e Adolph Gottlieb.
Anche la Pop Art si unì alla scena degli Hamptons, con Larry Rivers e Roy Lichtenstein che si stabilirono a Southampton. Nel 1971 Andy Warhol comprò una proprietà a Montauk, nota come Eothen, dove ospitò, tra gli altri, Julian Schnabel e Keith Haring; una parte della proprietà è stata acquistata nel 2015 dal gallerista e collezionista Adam Lindemann per la modica cifra di 48,7 milioni di dollari.
Con uno di quei processi di ribaltamento tipici della geografia sociale newyorkese, infatti, proprio a partire dagli anni Settanta gli Hamptons si sono trasformati in una zona di gran lusso, agognata da imprenditori, personaggi famosi e artisti che fanno a gara per accaparrarsi i terreni in migliore posizione dove costruire meravigliose residenze immerse nel verde.
In una dimensione ora completamente diversa rispetto all’antica bohème, Julian Schnabel ha una proprietà a Montauk, David Salle vive a East Hampton, Eric Fischl a North Haven.
Non stupisce, quindi, che anche il mondo affaristico legato all’arte contemporanea abbia le sue teste di ponte negli Hamptons.
Durante la prima fase della pandemia e il lungo lockdown di New York City, Larry Gagosian ha coordinato i suoi affari recluso nella sua villa a East Hampton; la casa d’aste Phillips ha una sede espositiva a Southampton, nell’edificio storico della ex Town Hall, a due passi da una galleria di Hauser & Wirth…
E poi vi è la parte museale. Oltre alla già citata Pollock-Krasner House di Springs, a Bridgehampton ha sede il Dan Flavin Art Institute, curato dalla Dia Art Foundation, che presenta installazioni permanenti dell’artista newyorkese noto per i suoi lavori con i neon.
Il più importante museo della zona è però il Parrish Art Museum, che nel 2012 è stato trasferito dalla sede originaria di Southampton in un bellissimo edificio progettato da Herzog & de Meuron a Water Mill.
La collezione permanente del museo conta circa 3000 opere, per la maggior parte esposte a rotazione. Vi è una sala dedicata ai pittori di inizio Novecento, ma si tratta soprattutto di un museo dedito all’arte del secondo dopoguerra fino alle esperienze contemporanee.
Tra i lavori attualmente in esposizione, colpiscono in particolare un Untitled del 1949 di John Little; Sardinian Shepherd, una delle primissime opere in sabbia e malta (il cosiddetto sandcasting) di Costantino Nivola, l’artista di origine sarda i cui Cavallini nell’Upper West Side di Manhattan sono stati recentemente al centro di una disputa sardo-newyorkese (risoltasi a favore dei nostri); un bellissimo Untitled dei primi anni Settanta di Louise Nevelson; il forte Polish Landscape II Jan 5, 1990 (Auschwitz) di Donald Sultan.
E poi, ancora, opere di Elaine de Kooning, John Chamberlain (un inconsueto lavoro fotografico: David Budd’s Wake del 1991), Jasper Johns, Chuck Close e uno di quei ritratti apparentemente fotografici di Till Freiwald che, a una visione ravvicinata, si rivela in realtà un enorme acquerello.
(A proposito di Nivola, anche lui trasferitosi nel 1948 a Springs, dove ebbe modo di frequentare i Pollock: l’8 maggio si è inaugurata presso la Fondazione Magazzino Italian Art di Cold Springs, nell’Upstate New York, la mostra Nivola: Sandscapes, che sarà aperta fino al 10 gennaio del prossimo anno).
Tornando al Parrish, un corridoio con foto d’epoca che ritraggono le generazioni di artisti che hanno vissuto e operato negli Hamptons introduce a una strepitosa sala di fotografia che sfoggia autori come Eve Arnold, Richard Avedon, Elliott Erwitt, Larry Clark, Spencer Tunick, anche in questo caso con lavori spesso legati al territorio.
Attorno al museo, infine, vi è uno sculpture garden con opere, tra gli altri, di Max Ernst, Roy Lichtenstein, Jim Dine, Giuseppe Penone, Jaume Plensa (Field of Dreams, 2020), Theaster Gates (la bella opera concettuale Monument in Waiting, 2020).
Ma abbiamo nominato prima le splendide ville che caratterizzano gli Hamptons. Oltre alle dimore storiche di inizi Novecento (nei tradizionali Stick style e Shingle style), anche qui l’amante dell’arte contemporanea potrà trovare dei gioielli.
La residenza di Larry Gagosian, di cui si è parlato, è stata disegnata dall’architetto Charles Gwathmey (uno degli storici New York Five), autore di diverse ville nell’East End, inclusa la Gwathmey House, progettata nel 1965 per i propri genitori e divenuta successivamente la sua casa-studio: un magnifico esempio di coniugazione di istanze razionaliste e moderniste, fra Rietveld e Le Corbusier.
Meravigliosa poi la Saltzman House realizzata da Richard Meier nel 1969, dove abili aggiunte e sottrazioni di volume armonizzano i pieni e i vuoti con un effetto di grande ariosità, e l’arrotondamento di uno degli angoli del corpo principale, nonché la passerella che lo collega a una dépendance, conferiscono slancio alla struttura, perfettamente integrata nel paesaggio circostante.
Ma si tratta solo di pochi esempi di una sorta di museo a cielo aperto dell’architettura americana del Novecento. Una ricognizione dei capolavori degli Hamptons richiede certamente più di un weekend di visita.
P.S.: Desidero ringraziare il mio amico Marco Zaupa — architetto italiano che lavora a New York — per avermi fatto da guida e chauffeur nella scoperta degli Hamptons.