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Investire in arte: oltre i tabù e le difficoltà degli art funds

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Negli ultimi anni si è molto parlato di fondi di investimento in arte e, anche se in misura minore, se ne continua a parlare ancora oggi. Per chi non ne fosse a conoscenza, con fondo d’arte (o art fund) si indica un fondo di investimento speculativo (hedge) gestito da un management (solitamente una società di gestione del risparmio) che raccoglie capitali privati con lo scopo di acquisire, valorizzare e in seguito vendere le opere acquisite. Da un punto di vista più generale, gli hedge funds sono raccolte di capitale privato che una struttura investe nei modi più disparati: dalla tecnologia ai videogames, dalle start-up alle imprese consolidate, fino ad arrivare a replicare i meccanismi di investimento degli indici (così da poter garantire un ritorno economico meno allettante ma più sicuro).

Esistono fondi di investimento praticamente per ogni tipologia di bene, ma quelli d’arte, non serve neanche dirlo, mostrano dei caratteri piuttosto particolari. Prima di tutto, un tabù: per molti, sia che rientrino nel settore finanziario, sia che invece provengano da comparti più umanistici, queste forme di finanziamento rappresentano dei canali di investimento dalla natura poco chiara. Nessuno ama dirlo così apertamente, ma è così. Per questa ragione la Cina (che era divenuta negli ultimi anni una delle economie più specializzate in questo settore) quando si è dotata di una regolamentazione maggiore ha avuto una grande flessione: non tanto perché i capitali fossero davvero provenienti da fonti anomale, ma piuttosto perché partendo dal pregiudizio comune che i fondi d’arte siano suscettibili a tali infiltrazioni, e conoscendo le intenzioni di regolamentare maggiormente il comparto, molti investitori hanno ipotizzato che ci sarebbero stati problemi di rendimento  per l’intero settore, attuando la famosa profezia che si auto-avvera.

Ma non è soltanto questo mito (quasi impossibile da confutare o da confermare) a rendere particolari i fondi d’arte: l’arte è infatti uno dei mercati più opachi che esistano, in cui i processi di creazione di valore sono in parte imprevedibili, in parte invece difficili da testimoniare. Questo, ovviamente, aumenta l’aleatorietà degli investimenti, e in finanza, maggior rischio vuol dire sempre maggior rendimento, e non tutte le forme d’arte riescono a rispondere a questo assioma. In altri termini, dato che è molto difficile poter garantire che un investimento in un’opera d’arte possa portare a dei ritorni dati (rischio), per rendere l’investimento attendibile quell’opera dovrebbe presentare dei tassi di rendimento molto elevati (profitto). Ma questo non si può dire: certo, ci sono artisti emergenti che in un periodo di tempo relativamente breve (tre-cinque anni) vedono il valore delle proprie opere decuplicare, ma nella maggior parte delle volte il ROI non è così d’appeal.

Allora come si può davvero creare un fondo di investimento in arte? La risposta più sensata sembra essere creare un fondo di investimento ibrido: un fondo che affianchi una serie di strumenti volti a garantire un ROI adeguato ad altri elementi di aleatorietà, tra cui possa comparire anche una serie di investimenti in arte. Progettare un fondo che replichi le performance di mercato di un indice, associare ad esso una serie di strumenti di garanzia (che permettano di bilanciare il portafoglio), inserire all’interno una serie di investimenti ad alto rendimento (soprattutto beni immobiliari) e infine prevedere una quota parte di investimenti in arte contemporanea.

Questo potrebbe in qualche modo inserire il settore in modo più coerente all’interno del comparto finanziario, ma allo stesso tempo potrebbe generare delle diseconomie: perché un’opera d’arte si valorizzi nel tempo è necessario attuare una serie di strategie di investimento, che vanno dal marketing dell’opera d’arte alla creazione di eventi speciali per promuovere l’artista, dal coinvolgimento della stampa e della critica fino alla previsione di vendita sui mercati internazionali. Tutto ciò comporta un costo di management che l’opera dovrebbe in qualche modo recuperare, e alle condizioni date, può darsi che questi investimenti non vengano ripagati in maniera proporzionale.

C’è poi un altro punto importante che invece attiene la garanzia della qualità dell’opera: tutti i passaggi nominati sono infatti operazioni di investimento, che possono essere viste come mercificazione di un’opera d’arte e che in quanto tale possono inficiare la credibilità artistica del bene oggetto di investimento. Per superare questo tipo di scoglio, è dunque necessario che la selezione delle opere venga fatta attraverso dei canali scientifici estremamente attendibili (critici di chiara fama, etc.) che si aggiungono tuttavia ai costi di investimento necessari. Non si può chiedere ad un management finanziario, infatti, di possedere le competenze di critico d’arte. Il critico deve essere un costo di consulenza, e questo a sua volta può portare ad una serie di interessi (artisti a lui vicini, etc.) come un cane che si morde la coda.

Come si possono dunque superare questi ostacoli? È una risposta che in molti stanno cercando, bilanciando costi di investimento e payback period, tassi di ritorno e scientificità delle scelte. Ma una possibile soluzione potrebbe essere quella di inserire nel prospetto di investimento una strategia di valorizzazione delle opere chiara, assegnata ad una società credibile, con la definizione chiara del suo compenso. In questo modo la società avrebbe interesse ad agire in modo corretto, pena la perdita di credibilità, e il fondo darebbe in outosourcing tutti i costi di gestione che diverrebbero così capitale di rischio della società. Un meccanismo semplice che potrebbe sbloccare una parte di mercato ancora oggi dormiente.

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