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La pittura di Julie Mehretu fra astrazione e figurazione

del

Oggi lo scenario della pittura a livello internazionale non sembra il più innovativo, in un’ottica di costante crescita tecnologica l’uso dei colori e delle tele diventa sempre più anacronistico e i nuovi mezzi grafici offrono possibilità espressive sempre più sofisticate. Tuttavia i pittori esistono e attualmente sembrano dividersi fra due tendenze generali e relative finalità: da una parte ci sono gli studi di percezione e formali e dall’altra l’uso del mezzo come espressione di sé, spesso fortemente legato a tematiche sociali.

Dunque due opposte tendenze, concettuale ed espressionista, che immediatamente ci riporta al discorso iniziato un secolo fa, nel 1907, da Wilhelm Worringer nel suo “Astrazione ed empatia”. Per quanto nella sua tesi di laurea il giovane Worringer parlasse esclusivamente di arte antica da allora la sua espressione è diventata lo spartiacque degli artisti del Novecento.

Ancora oggi, appena conclusa la Biennale di Venezia, sembrano confermarsi valide queste due direttrici in merito agli artisti che abbiamo avuto l’occasione di conoscere in questa edizione, una pittrice in particolare sta portando avanti una riflessione sul mezzo pittorico, sulle sue esigenze e finalità, che si aggancia alle istanze del passato e le porta nel tempo presente: Julie Mehretu, nata nel 1970 in Etiopia.

Trasferitasi da bambina negli Stati Uniti, Mehretu ha studiato all’Università Cheik Anta Diop a Dakar, al Kalamazoo College in Michigan, per poi ottenere un master alla Rhode Island School of Design nel 1997. Da lì ha poi avviato una carriera internazionale spostandosi tra Berlino e New York, fino alla mostra personale nel 2003 al Walker Art Center di Minneapolis che ha sancito un passaggio di livello nella sua carriera.

Un vista della mostra “Julie Mehretu: Drawing into Painting”, Walker Art Center, Minneapolis, 2003

Da allora ha partecipato a molte Biennali in tutto il mondo e da poco è iniziato il suo tour in solitaria nei maggiori musei degli USA, che parte dal Los Angeles County Museum of Art per poi raggiungere il prossimo anno il Whitney Museum di New York, che ha già acquisito diverse sue incisioni, quindi toccare lo High Museum of Art di Atlanta e infine tornare al Walker Art Center nel 2021. I presupposti per un futuro brillante ci sono tutti, comprese le gallerie di riferimento che la rappresentano, e la sua carriera non sembra ancora essere in fase discendente.

Mehretu ha saputo sviluppare un suo codice visivo partendo dalla recente storia dell’arte. Le sue intenzioni dichiarate sono di prendere un’immagine e portarla fino ai limiti estremi dell’astrazione, spingere il segno sempre più in là fino a ridefinire il confine fra l’astrazione e la figurazione. Già nelle sue prime opere degli anni 2000 ha utilizzato immagini prese da diversi tipi di media, come disegni architettonici, mappe e planimetrie di città, che poi venivano disegnati con il pennarello in strati successivi gli uni sugli altri.

I segni così affastellati non erano più riconoscibili e si perdeva totalmente la visione di un’immagine unica, come avere costantemente un brusio di sottofondo. A volte questi progetti architettonici rivelavano un intento preciso e venivano selezionati per il loro carattere o il loro utilizzo. Come nella mostra del 2003 al Walker Art Center, in cui partiva soprattutto dai progetti grafici di grandi luoghi pubblici, che fossero aeroporti, scuole o stadi e, strato dopo strato, componeva una nuova immagine. Fra l’uno e gli altri interponeva un acrilico trasparente per accentuare l’effetto di sovrapposizione e non commistione.

In altri casi parte da fotografie che hanno avuto un rilevante accento politico o di denuncia sociale, come nei suoi quadri presentati all’ultima Biennale di Venezia. Ha scelto delle foto pubblicate sui giornali riguardanti alcuni dei fatti più eclatanti degli ultimi anni, come una manifestazione a sostegno dell’ultra destra a Charlotte, in Carolina del Nord, o di un’altra a Barcellona per l’indipendenza della Catalogna, o dell’incendio della Grenfell Tower a Londra nel 2017.

Julie Mehretu, Mogamma (A Painting in Four Parts), 2012. Vista dell’installazione a dOCUMENTA (13).

La storia recente, così come l’architettura iconica e rappresentativa delle nostre città, è quindi il punto di partenza, ma non si risolve in una riproposizione del dato di fatto. L’immagine, infatti, è resa praticamente irriconoscibile dagli strati di pittura e segni che vengono stesi in molti strati successivi, come fossero delle note dominanti che si impongono sulla base. Questi segni sembrano richiamare epoche e stili differenti. In alcuni cicli dei primi anni 2000 a inchiostro di china o acrilico sembravano formare paesaggi nebbiosi e acquatici sulla falsariga delle stampe di paesaggi cinesi.

Accenna nuvole, foglie e profili di colline senza tuttavia chiudere mai il gesto in una forma compiuta. Segni a tutti gli effetti, una pittura di gesto, veloce, resa ancora più fluida in alcune opere cercando di minimizzare il più possibile l’attrito usando delle superfici plastiche o resinose che permettono di scivolare con il pennello e non interrompere il ritmo della pittura. Nelle grandi tele aggiunge il colore come ultimo passo, a volte in ampie superfici geometriche oppure, come nelle ultime tele presentate in Biennale, è un colore aerografato che va a confondere la profondità dello spazio con un effetto nebbia.

I nomi che l’artista sceglie per le sue opere sono spesso una buona guida all’interpretazione e anche questo caso non fa eccezione. Alcune serie del 2006 sono state intitolate “Palinsesto”, una parola che subito riporta alla memoria le pareti dipinte nella Chiesa di Santa Maria Antiqua a Roma, dove si vedono sette strati di pittura databili in momenti diversi fra il IV e l’VIII secolo d.C. Un manuale di storia dell’arte fatto unicamente da immagini e che si è formato da sé come un organismo naturale. La sovrapposizione, l’accostamento, il collage, sono tutti mezzi di catalogazione e conoscenza che, seguendo le vie dell’analogia, permettono di fare confronti inediti. Una storia dell’arte non dettata dalla cronologia o da rapporti di causa-effetto, ma solo da una legge di simpatia che fa attrarre i simili al di là dei rapporti di spazio e tempo.

Utilizza spesso anche l’espressione “In between”, nel mezzo, per parlare della sua pittura. il confine fra astrazione e figurazione è stato spostato e scavalcato innumerevoli volte dagli artisti e con Mehretu si allarga fino a diventare un’ampia autostrada su cui viaggiare a lungo e comodamente. Nel mezzo dei suoi quadri c’è spazio per tutto e avvicinandosi per osservare i dettagli l’intrico di linee sovrapposte si dispiega in molti piccoli disegni, e poi allontanandosi tutto si fonde in un’immagine pulviscolare che si muove seguendo linee andamentali e organizzandosi in simmetrie.

Julie Mehretu, Sing, Unburied, Sing (J.W.), 2018. Opera esposta alla Biennale di Venezia

Nei quadri in cui sembra dominare il caos, come “Babel Unleashed”/ “Babele sguinzagliata”, dunque la sovrapposizione segue un ordine: dall’immagine data e oggettiva (tanto del disegno architettonico quanto della fotografia) alla scrittura gestuale che segue il ritmo del corpo dell’artista, al colore applicato in quella che storicamente chiamiamo astrazione geometrica. Mehretu, figlia del suo tempo e della sua storia, ha viaggiato e visto tutto, ha assorbito le tecniche di mezzo mondo e conosce cosa succede. La sincronia,come la simpatia, abbatte le barriere e fa muovere queste linee tutte insieme.

I gesti brevi e decisi sulla superficie dicono chiaramente che Mehretu ha studiato bene l’arte del recente passato e ha assorbito il gusto per il disegno automatico che ha attraversato le epoche e i continenti. Da Hans Jean Arp, Max Ernst, André Masson e Joan Mirò a Jackson Pollock fino a Cy Twombly abbiamo avuto innumerevoli esempi di artisti che hanno imparato a padroneggiare lo scarabocchio, imparando a fermarsi per lasciare le forme aperte all’interpretazione, a evocare figure per poi ricacciarle subito nel caos indistinto, a lasciare la mano libera di seguire i percorsi che la logica non conosce.

Le linee ci sono proprio tutte, raccolte in un catalogo o, forse, come scriveva Manlio Brusatin in “Storia delle linee”, una trasformazione semantica ininterrotta delle linee stesse. Con un incipit magistrale Brusatin parla delle linee come di cose vive, che azionano il pensiero e lo mettono in moto portandolo lontano, e presentando la figura mitica dell’architetto come quella di colui che dominando le linee dà ordine anche allo spazio che lo circonda, separandolo dal caos naturale.

Julie Mehretu è l’ultimo anello di questa lunga tradizione che assegna all’artista il compito di districarsi fra le tendenze del disegno e dello scarabocchio, un’eredità che si è fatta piuttosto pesante in verità. Ma ha raccolto bene questo compito e lo affronta con leggerezza di mano e profondità di pensiero, muovendosi fra la storia dell’arte e la necessità di indagare il proprio tempo anche nelle sue complesse ambiguità.

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