Non abbiamo fatto in tempo a gridare al miracolo davanti alla crescita strabiliante del mercato dell’arte cinese, baluardo estremo della globalizzazione, che sul più bello tutto si è fermato. Dopo un 2011 che, per la prima volta nella storia, ha visto la Cina scardinare il duopolio storico New York – Londra, infatti, il colosso orientale ha fatto registrare, nel 2012, una brusca battuta d’arresto: -24%. Un crollo che ha riconsegnato lo scettro del mercato dell’arte agli Stati Uniti, forti di un +5%, mentre il Regno Unito conserva la sua terza posizione. Rivincita dei mercati storici contro gli emergenti? Forse. Sicuramente un risultato frutto di una globalizzazione che nell’arte, come in altri settori economici, sta iniziando a scricchiolare, fiaccata da una crisi economica internazionale che perdura dal 2008 e che, pur non lambendo la fascia alta del mercato, sta iniziando a rosicchiare sempre di più la base del sistema.
Come emerge dal TEFAF Art Market Report 2013, presentato a Maastricht il 15 marzo scorso, infatti, le due principali cause della massiccia ritirata della Cina sono, in primo luogo, il calo della domanda – legato al rallentamento della crescita economica – e la riduzione della disponibilità sul mercato di opere di alto livello e di prezzo elevato: come dire, un assottigliamento di quella fascia alta che, dal 2009 ad oggi, ha permesso al mercato dell’arte di reggere meglio la crisi rispetto ad altri settori dell’economia mondiale. Allo stesso tempo, molti fondi d’investimento in arte e altri investimenti speculativi hanno ridotto nell’anno la loro partecipazione nel mercato. Risultato: il valore delle vendite in Cina è calato a 10.6 miliardi di euro trascinandosi dietro l’intero comparto che, a livello internazionale, ha chiuso il suo 2012 con un -7%, passando da 46.4 a 43 miliardi di euro. Ne approfittano gli Stati Uniti che, chiudendo a 13.1 miliardi, riguadagnano la leadership. Si ferma a 15.3 miliardi, invece, il bilancio della vecchia Europa (-3% sul 2011) dove, per molte piazze, il 2012 è stato decisamente fiacco: stagnano le vendite nel Regno Unito, fermo ad un totale di 10.1 miliardi, e si contraggono di oltre il 12% quelle di Francia, Germania e Italia. E assieme al valore cala anche il numero delle transazioni: 35.5 milioni, ossia il 4% in meno rispetto al 2011. Tanti segni meno che, in soli 365 giorni, hanno ridisegnato una geografia dell’arte che aveva impiegato quasi cinquant’anni per far registrare cambiamenti significativi e oggi gli Stati Uniti rappresentano il 33% delle quote di mercato in valore (+4% sul 2011), la Cina il 25% (-5%) e il Regno Unito il 23%.
Fin qui il quadro generale del mercato dell’arte, un mondo che però è decisamente troppo articolato per poter essere ridotto all’unità. Entrando nel dettaglio dei vari settori, infatti, è possibile notare come lo scenario negativo delineato dal Rapporto redatto da Clare McAndrew, fondatrice di Arts Economics, vari a seconda del segmento d’offerta, passando da profondità negative a picchi positivi. E’ il caso del Post-War and Contemporary Art che anche nel 2012 si è confermato il settore più ampio del mercato, pari al 43% del valore totale e al 41% delle transazioni. A fronte di un modesto +5% rispetto al 2011, questo settore ha toccato, per la prima volta nella sua storia, i 4.5 miliardi di euro, pur rimanendo legato ad un numero estremamente ristretto di artisti, rendendo un po’ difficile, anche in questo caso, parlare di un mercato dell’arte globalizzato e confermando, a mio avviso, quanto sostenuto dal guru del management Pankaj Ghemawat che ha, da sempre, definito come una bufala la globalizzazione. Una bufala a cui tanti hanno creduto, certo, ma questo, come ha scritto ieri su Repubblica Maurizio Ricci, oggi conta ben poco perché «la crisi finanziaria del 2008 ha stravolto i processi di globalizzazione, svuotandone alcuni, ingabbiandone altri, togliendo spinta e forza vitale a quella che sembrava una grande marea. E non è affatto detto che, ora che la crisi mondiale allenta un po’ il suo peso, tutto ricominci come prima. Anzi, osserva una grande società di consulenza aziendale come McKinsey, c’è la possibilità di una concreta ritirata: la globalizzazione non ritrova più il passo, si ripiega su se stessa, si arrende ad un mondo frammentato».
Il panorama descritto da Ricci fa riferimento all’economia e alla società vista nel suo complesso, ma anche guardando il solo mondo dell’arte, i conti non cambiano come confermano i numeri e i trend dell’Art Market Report 2013 di Arts Economics che mettono in evidenza una rilevanza sempre maggiore dei mercati domestici come sbocco per le opere vendute dalle gallerie che, oggi, rappresentano più della metà del mercato.
Ma dal rapporto emergono anche alcuni numeri e trend che evidenziano alcuni movimenti in controtendenza rispetto agli scenari delineati nel 2012. Se a soffrire è sempre la fascia più bassa del mercato – calano del 17% le vendite di opere sotto i 500 mila euro mente crescono del 55% quelle delle vendite superiori a 10 milioni -, infatti, tornano a crescere le vendite dei galleristi (+2%) che rappresentano oltre il 52% del mercato con picchi dell’80% in alcuni paesi. Calano del 2% le vendite tramite internet – che nel 2012 hanno rappresentato l’8% del totale – e quelle condotte privatamente o in asta (-2%), in favore di quelle in galleria (+1%) e in fiera (+5%).
Molto probabilmente sarebbe troppo ardito, oggi, parlare della fine di un’epoca, anche perché sono molti i fattori che confermano l’importanza di mercati emergenti come quello cinese ma una cosa è certa: il mondo, a differenza di quando sostenuto dal giornalista americano Tom Friedman, non è piatto, e il mercato, anche quello dell’arte, è ben lontano dall’essere realmente globalizzato visto che, alla resa dei conti, nei mercati emergenti come in quelli storici, la maggior parte degli acquisti effettuati dai collezionisti avviene all’interno dei propri confini nazionali e, in primo luogo proprio negli emergenti, le opere acquistate sono quelle più vicine alla cultura locale. Se, d’altronde, guardiamo i dati relativi alle importazioni e alle esportazione di arte nel mondo, le due aree-mercato che pesano di più in termini di interscambio sono Stati Uniti e Europa, culturalmente affini sul fronte del contemporaneo e che, non a caso, si comprano arte a vicenda.
Sull’altro fronte, la Cina, che tra i nuovi mercati è quello con le quote maggiori di commercio estero, non solo, come detto, è molto concentrata sulla produzione interna (spopolano la pittura contemporanea cinese e le opere di calligrafia) ma i suoi flussi di import-export scorrono principalmente tra la mainland e Hong Kong e, non a caso, sempre in Cina, il valore del mercato di Post-War and Contemporary Art è calato del 33% rispetto al 2011, quando era avvenuto il sorpasso sugli Stati Uniti che oggi tornano in testa alla classifica con un +25% rispetto all’anno precedente, il 41% delle quote e il 19% delle transazioni. Ma sono dati figli dei tempi: se qualche apertura globalizzante c’è stata nel recente passato, è anche naturale che in un momento di forte incertezza come quello attuale, dove anche in Cina la crescita, pur rimanendo di segno positivo inizia a rallentare, le scelte di chi compra arte si orientino verso le cose più note, familiari e, a loro modo, rassicuranti, rimandando a tempi più sereni il puntare al nuovo e allo “sconosciuto”.
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