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Diario Veneziano #1 – Viva Arte Viva: l’arte descritta come ecosistema

del

Dopo giorni di meteo incerto, la preview della 57. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia si apre in una bella giornata dal sapore estivo. I vaporetti delle linee 4 e 5 sono gremiti di visitatori sorridenti che si dirigono verso i Giardini della Biennale, tra il dondolio delle onde dei canali. E’ qui, nel Padiglione Centrale, che si apre il percorso di Viva Arte Viva, la mostra curata da Christine Macel che, dopo la Biennale intrisa di filosofia di Massimiliano Gioni (2013) e quella super-politicizzata di Okwui Enwzor (2015), riporta l’attenzione sull’artista e il fare arte.

Una Biennale, quella di quest’anno, che certamente farà discutere, sia per la mancanza di “capolavori” –  ma aggiungerei anche per un numero eccessivo di artisti, alcuni dei quali decisamente poco significativi – che per un approccio molto istituzionale, forse anche didascalico, che sembra quasi farla parlare più al grande pubblico che non agli esperti di settore. Ma, in fondo, un’istituzione culturale come la Biennale credo abbia anche questo compito. Specie oggi che sempre più persone si avvicinano, incuriosite, ad un contemporaneo spesso fin troppo autoreferenziale. Mi rendo conto, però, che per molti questo corrisponderà ad una sorta di peccato originale e che la kermesse lagunare farà storcere il naso a tanti… Procediamo, però, con ordine cercando di capire il disegno generale della Macel e, anche se non sarà un’edizione che passerà alla storia, quello che c’è di positivo di Viva Arte Viva.

Il vaporetto della linea 5 che dalla Stazione di Venezia Santa Lucia porta ai Giardini.
Il vaporetto della linea 5 che dalla Stazione di Venezia Santa Lucia porta ai Giardini.

Attraverso nove tappe e i lavori di 120 artisti Viva Arte Viva ci guida in un vero e proprio cammino all’interno del processo produttivo dell’arte, che parte dal Padiglione degli Artisti e dei Libri e da quell’inerzia laboriosa che i latini chiamavo otium. Ossia l’inoperosità attiva da cui, come ci ricorda l’artista concettuale serbo Mladen Stilinovic, immortalato negli 8 scatti in bianco e nero di Artist at Work (1978) mentre si rigira nel suo letto, nascono le opere d’arte. Nell’Ottocento, poi, si sarebbe iniziato a parlare anche di flâneur, ma questa è un’altra storia. E lo stesso concetto, poche stanze più in là, lo ritrovo anche nella più recente The Artist is Asleep (1996): installazione-performance di Yelena Vobobyeva e Viktor Vorobyev che ci induce a credere che l’artista si sia addormentato, inscenando una fusione tra arte e vita e proclamando l’improduttività vitale per l’arte. Una dimensione che, spesso, chi non fa questo mestiere fa fatica a comprendere.

Yelena Vobobyeva e Viktor Vorobyev, The Artist is Asleep, 1996
Yelena Vobobyeva e Viktor Vorobyev, The Artist is Asleep, 1996

Passo dopo passo l’intimità dell’artista si dischiude davanti ai nostri occhi; l’ozio creativo diventa ricerca di conoscenza, sottolineando l’importanza dello studio e dell’approfondimento nella pratica artistica. Personalmente, peraltro, mi ha fatto sempre sorridere la separazione che spesso viene operata tra Arte e Cultura. Qui, fortunatamente, il ricongiungimento è compiuto, sottolineando come il legame tra artisti, libri e scrittura si sia fatto nel tempo sempre più stretto, sia nella fase progettuale che in quella produttiva. E davanti a noi si apre quello che è il luogo della creatività per eccellenza: l’atelier.

Un luogo quasi sacro, che si fa itinerante con Dawn Kasper la quale, nel 2008, non riuscendo più a pagare l’affitto, ha inventato il concetto di “studio nomade”, esperienza che qui in Biennale arriva con l’opera intitolata The Sun, the Moon and the Stars (2012) per la quale ha traslocato letteralmente, nella sala Chini del padiglione centrale, il contenuto del suo studio, tra oggetti di varia natura e strumenti musicali. Oppure diventa workshop creativo con Olafur Eliasson che a Venezia propone Green Light, progetto concepito per essere un atto di benvenuto; una piattaforma che invita il pubblico a fabbricare delle lampade modulari a partire da pezzi concepiti dall’artista.

Dawn Kasper, The Sun, The Moon and The Stars, 2017
Dawn Kasper, The Sun, The Moon and The Stars, 2017

Mentre l’installazione Hassan Sharif Studio (Supermarket) ci racconta la carriera e la pratica dell’artista emiratino Hassan Sharif e di come la sua attività creativa sia connessa alla società in cui viviamo. Il suo lavoro per la Biennale, basato sull’accumulo di oggetti normali, è un vero proprio atto di resistenza all’abbondanza del sistema commerciale e consumistico.

Hassan Sharif, Hassan Sharif Studio (Supermarket), 1990-2016
Hassan Sharif, Hassan Sharif Studio (Supermarket), 1990-2016

Si arriva così al Padiglione delle Gioie e delle Paure dove le opere selezionate evocano il rapporto tra il soggetto (l’artista) con la sua esistenza e le sue emozioni personali, sempre più forti, in un mondo dove crescono le diseguaglianze, i conflitti e le guerre. Con molta probabilità uno dei trans-padiglioni più riusciti dell’intera mostra. A partire dalla sala dedicata al lavoro dell’artista siriano Marwan che, fin dalle prime opere degli anni Sessanta, ha sempre cercato una sua verità attraverso il dualismo tra vita e morte; assenza presenza; amore e odio.

Tre opere dell'artista siriano Marwan degli anni Sessanta.
Tre opere dell’artista siriano Marwan degli anni Sessanta.

Un’opera, quella di Marwan, che è un’ode alla libertà; un inno all’anima. Si procede, così, con le opere dell’action artist e performer ungherese Tibor Hajas che in Tumo (1979) arriva ad evocare esperienze vicine alla morte, ponendo l’accento su quel confine che separa l’esistenza dalla non esistenza.

Mentre sulla struttura e la forma degli organismi viventi si concentra il ceco Lubos Plny, che usa i “componenti” del corpo umano e le loro interconnessioni per raccontare gli aspetti più privati della sua vita.

Ma la sala più bella del secondo Padiglione è certamente quella dedicata a Kiki Smith, che nei suoi lavori affronta tematiche universali della femminilità, dalla nascita alla morte.

Kiki Smith, The Watcher, 2012
Kiki Smith, The Watcher, 2012

E affascinante è anche Lake Valley di Rachel Rose, video-installazione realizzata con le tecniche del cel animation e compositing, che ci racconta una storia di abbandono ambientata in un sobborgo immaginario.

Mentre indaga il confine tra realtà e finzione il video Suspension dell’argentino Diaz Morales: una sorta di allegoria dell’uomo moderno che, mentre precipita, rimane di una passività imperturbabile.

Sebastiàn Diaz Morales, Suspension, 2014
Sebastiàn Diaz Morales, Suspension, 2014

Dopo che nel 1972, sulle pagine di Artforum, il critico britannico Lawrence Alloway descriveva il mondo dell’arte come un “sistema”; Christine Macel con la sua Viva Arte Viva, sembra fare un passo ulteriore nella descrizione del mondo dell’arte come un vero e proprio ecosistema. Ossia come un insieme sistemico costituito da organismi viventi che interagiscono tra loro e con l’ambiente che li circonda, in un continuo scambio e ri-cambio di energie. E questo è, forse, l’aspetto realmente positivo di questa mostra non certo elettrizzante, ma che assume i connotati di una sorta di passaporto per il contemporaneo. E da una curatrice museale credo sia quello che ci si poteva attendere.

Si arriva così all’Arsenale e alla seconda parte della mostra, con il Padiglione dello Spazio comune che riunisce artisti le cui opere si interrogano sul concetto del collettivo, sul modo di costruire una comunità che va oltre l’individualismo e gli interessi specifici, particolarmente presenti in un’epoca di inquietudine ed indifferenza come la nostra. E non a caso, ad aprire questo terzo spazio è una video-installazione del cileno Juan Downey,  la cui ricerca artistica è incentrata sull’impatto sociale delle nuove tecnologie: The Circle of Fires Vive (2014).

Juan Downey, The Circle of Fires vive, 2014
Juan Downey, The Circle of Fires vive, 2014

Ed è sempre in questo padiglione che fa bella mostra di sè il lavoro della nostra Maria Lai, presente con una serie di opere storiche veramente eccelse, tra le quali una serie di Telai e le immagini della sua celebre performance Legarsi alla montagna del 1981 e che, in anticipo su quella che sarà l’arte relazionale, pone l’artista nell’ambito della sfera pubblica, con la creazione di rituali laici, fondati sulla partecipazione, sulla condivisione dei processi creativi e sul gioco.

Maria Lai, Geografia, 1982
Maria Lai, Geografia, 1982

Il filo, peraltro, è in questo padiglione uno degli elementi più ricorrenti, che ritroviamo, ad esempio, in The Mending Project di Lee Mingwei, in cui l’atto banale del cucire diviene mezzo per portare alla luce narrazioni personali. Oppure in A Stitch of Time del filippino David Medalla: progetto itinerante iniziato nel 1968 e basato sul ricamo come atto creativo il quale va a comporre dei tessuti che diventano degli archivi di immagini e parole; delle testimonianze di un’epoca.

David Medalla, A Stitch in Time, 1968-2017
David Medalla, A Stitch in Time, 1968-2017

Dallo Spazio Comune al Padiglione della Terra dove sono riunite utopie, constatazioni e sogni intorno all’ambiente, al pianeta e al mondo animale. Come quelle del gruppo giapponese The Play che, con opere come Current of Contemporary Art, rifiuta il razionalismo scientifico; il concetto di progresso correlato all’espasione di un territorio e lo stile di vita sedentario individualista proprio del capitalismo. Oppure i lavori di  Shimabuku che con i suoi video esplora il mondo in cerca di connessioni poetiche e fantastiche, di cui nutre le proprie opere.

Shimabuku, The Snow Monkeys of Texas - Do Snow Monkeys Remember Snow Mountains?, 2016
Shimabuku, The Snow Monkeys of Texas – Do Snow Monkeys Remember Snow Mountains?, 2016

Ma qui troviamo anche la testimonianza di artisti come il canadese Kananginak Pootoogook che racconta dell’esistenza degli Inuit o Erika Verzutti le cui opere sono abitate da elementi banali e quotidiani che, grazie alle correlazioni che l’artista crea, aprono le opere ad una molteplicità di narrazioni e scambi. O ancora, il kossovaro Petrit Halilaj che a Venezia ha portato delle gigantesche sculture a forma di falena realizzate con tessuti tradizionali e che compongono un particolare bestiario, metafora della natura umana.

Petrit Halilaj, Do you realise there is a rainbow even if it's night?, 2017
Petrit Halilaj, Do you realise there is a rainbow even if it’s night?, 2017

E’ il nostro Michele Ciacciofera, invece, a aprire la strada del Padiglione delle Tradizioni; quelle stesse “usanze” che scacciate nel secolo dei Lumi ritornano oggi sottoforma di fondamentalismi e conservatorismi, ma che l’arte inizia ora ad affrontare con un desiderio di archeologia, di scavo, di rilettura e di reinvenzione, in percorsi spesso a metà strada tra la ricerca di un’identità storica e la costruzione di nuovi mondi possibili, partendo da una profonda presa di coscienza sull’oggi. Come avviene, oltre con che in Ciacciofera, con le opere di Anri Sala (All of the Tremble) o di Gabriel Orozco che a Venezia porta Visible Labor: installazione di travi montate secondo la tradizione giapponese, all’interno delle quali si trovano immagini di Buddha, Ferrari e una tavola per giocare a Go. Simboli di una società industriale in declino.

L'installazione delle opere di Michele Ciacciofera nel Padiglione delle Tradizioni.
L’installazione delle opere di Michele Ciacciofera nel Padiglione delle Tradizioni.

Si passa così al Padigione degli Sciamani dove spicca su tutti la grande tenda di Ernesto Neto (A Sacred Place): una struttura di poliammide sospesa alle travature del soffitto che richiama la forma della Cupixawa, luogo di socializzazione e rituali magici tipico della Foresta Amazzonica in cui gli stregoni, sotto gli effetti di piante allucinogene, mettono in atto sessioni di guarigione per medicare le ferite della società moderna ormai malata.

Ernesto Neto, Um Sagrato Lugar, 2017
Ernesto Neto, Um Sagrato Lugar, 2017

Alla celebrazione del corpo femminile e della sua sessualità, della vita e del piacere, con gioia e senso dell’humor, è dedicato invece il Padiglione Dionisiaco – anche se a dire il vero qui il disegno curatoriale si smarrisce un po’, mentre il Padiglione dei Colori sembra un po’ un fuoco d’artificio, in cui convergono, alla fine del percorso dell’Arsenale, tutte le questioni dei padiglioni precedenti. Tra le opere più belle di questo padiglione: la video-installazione dell’artista turco Hale Tenger, Baloon on The Sea, in cui una serie di palloncini colorati che galleggiano sul mare, vengono fatti scoppiare in un tiro al piattello che è un po’ un colpire alla cieca; rimando noir alla memoria collettiva del suo paese.

Hale Tenger, Baloons on the sea, 2011
Hale Tenger, Baloons on the sea, 2011

Un’esperienza straniante che precede l’ultimo capitolo: il Padiglione del Tempo e dell’Infinito. Per ammirare l’ultima tappa dobbiamo però spostarci nel Giardino delle Vergini che propone un nuovo approccio metafisico all’arte, dove il concetto di tempo viene reinventato con nuove tonalità.

Maha Malluh, Food for Thought "Amma Baad", 016
Maha Malluh, Food for Thought “Amma Baad”, 2016 (Padiglione Dionisiaco)

Qui si conclude Viva Arte Viva. E se in certi momenti si ha l’impressione che manchi il pezzo importante e che, specie negli ultimi “capitoli”, la narrazione si allunghi fin troppo senza però raggiungere il dovuto climax, il progetto messo in piedi per la Biennale di Venezia 2017 appare solido nel suo obiettivo di fondo. Con un apparato di base in cui il passato di curatore capo del Centre Pompidou della Macel si sente molto forte. L’impianto della mostra, che aprirà ufficialmente questo sabato, è infatti decisamente “museale”, a tratti quasi didattico. Una sorta di introduzione che, come dicevamo in apertura, sembra fatta a posta per avvicinare soprattutto i neofiti ad un’arte contemporanea che, per troppo tempo, è stata pane per i soli addetti ai lavori. E nel visitarla, durante questo primo giorno di preview, mi sono tornate in mente le parole di Francesco Bonami il quale, in un suo intervento al Museo Pecci di qualche tempo fa, disse che se l’arte contemporanea è diventata ormai un “fenomeno di massa” è anche giunto il momento di iniziare a parlarne in un altro modo.

Sheila Hicks, Scalata al di là dei terreni cromatici, 2017Sheila Hicks, Scalata al di là dei terreni cromatici, 2017
Sheila Hicks, Scalata al di là dei terreni cromatici, 2017 (Padiglione dei Colori)

Ora, non so bene quale fosse la dose di sarcasmo contenuta nelle parole di Bonami, ma certamente la Biennale di quest’anno sembra voler andare proprio in quella direzione. Schede, pannelli, didascalie e allestimento: tutto è pensato per una corretta comprensione degli artisti, del loro mondo e delle loro pratiche. Arte curatoriale allo stato puro, verrebbe da dire, in cui il curatore si fa, correttamente, “mediatore” tra un prodotto culturale complesso e un pubblico, magari appassionato, ma non per questo dotato di una conoscenza universale (ma chi è che ce l’ha veramente?).

Salvatore Arancio, If Was Only a Matter of Time Before We Found the Pyramid and Forced It Open, 2017
Salvatore Arancio, If Was Only a Matter of Time Before We Found the Pyramid and Forced It Open, 2017

Il tutto partendo da quel titolo, Viva Arte Viva, che se ripetuto come un mantra muta rapidamente in Viva Arte Vita, svelando quello che è l’obiettivo più profondo di questa mostra: ricollegare l’arte alla vita, quella degli artisti, quella di chi li circonda e di chi, più semplicemente, li “guarda”. Un esperimento prezioso, quello della Macel, in particolare in un momento dove le fila del populismo ingrassano sempre di più. L’arte si fa così antidoto allo stato di incertezza che caratterizza questi tempi. O per dirla con la stessa curatrice che, intervistata da Artnet, ama citare Gilles Deleuze, l’arte diventa “un atto di resistenza”.

Tramonto in laguna
Tramonto in laguna

E qui si tratta di resistere al vuoto di questi anni, all’onnipotenza di un individualismo che sta distruggendo completamente il senso stesso di comunità, fino a sfociare nell’indifferenza. E i capitoli di Viva Arte Viva ci portando, passo dopo passo, a scoprire un’arte che è tutt’altro che lontana dalla vita, ma bensì è un posto in cui si può iniziare veramente a reinventare il mondo, in cui sviluppare un nuovo principio di responsabilità che, come diceva il filosofo tedesco Hans Jonas, faccia sì che le conseguenze delle nostre azioni “siano compatibili con la sopravvivenza di un’autentica vita umana sulla terra”. Il sole inizia a tramontare sulla Laguna; la prima giornata di preview se n’è andata. Domani tocca ai padiglioni nazionali.

Nicola Maggi
Nicola Maggi
Giornalista professionista e storico della critica d'arte, Nicola Maggi (n. 1975) è l'ideatore e fondatore di Collezione da Tiffany il primo blog italiano dedicato al mercato e al collezionismo d’arte contemporanea. In passato ha collaborato con varie testate di settore per le quali si è occupato di mercato dell'arte e di economia della cultura. Nel 2019 e 2020 ha collaborato al Report “Il mercato dell’arte e dei beni da collezione” di Deloitte Private. Autore di vari saggi su arte e critica in Italia tra Ottocento e Novecento, ha recentemente pubblicato la guida “Comprare arte” dedicata a chi vuole iniziare a collezionare.

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