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Breve storia del collezionismo d’impresa

del

Il rapporto tra arte e impresa ha radici lontane. Due settori solo in apparenza distanti ed incompatibili, da tempo hanno instaurato un legame forte e duraturo. L’arte è riuscita a suscitare l’interesse delle imprese, le quali vi hanno creduto e investito grandi quantità di denaro. Gli artisti, per loro natura creativi e irrazionali, sembrano avere poco in comune con la rigidità e la logica razionale, tipica delle aziende, che invece hanno compreso le grandi potenzialità del mondo dell’arte e hanno iniziato a comportarsi come vere e proprie “collezioniste”.

 

Le prime forme di collaborazione fra arte e impresa

 

Con il termine inglese Corporate Art Collection si definisce una specifica forma di collezionismo, messa in atto dalle aziende, attive in diversi settori, e sviluppatasi in maniera dilagante tra gli Anni Settanta e Ottanta del secolo scorso in America. In realtà la storia del collezionismo d’impresa è molto più antica, poiché da diversi secoli le imprese acquistano opere d’arte e finanziano grandi capolavori. Se volessimo identificare la prima collezione corporate della storia, probabilmente sarebbe quella della Famiglia Medici a Firenze, sebbene non sia assolutamente paragonabile alle collezioni aziendali attuali. I Medici furono mecenati eccezionali di arte e architettura e i maggiori promotori di opere d’arte del Rinascimento.

Per descrivere le prime forme di collaborazione tra arte e azienda ed il fenomeno del collezionismo d’impresa si è voluto iniziare dai primi decenni del Novecento, quando le imprese si rivolgevano agli artisti per ideare nuovi packaging per i prodotti, creare calendari aziendali oppure ancora più spesso disegnare manifesti, locandine o stampe che ancora oggi testimoniano la creatività e la bravura degli artisti e sono oggetto di interessanti collezioni aziendali e private. A tal proposito, impossibile non ricordare il caso Toulouse-Lautrec, grande artista della Belle Époque parigina, che fu autore dell’identità visiva di eventi al Moulin Rouge di Parigi. A livello nazionale si ricordano tra le firme più celebri Bassi, Boccasile, Carboni e Depero che, nei primi decenni del Novecento, hanno collaborato con diverse tipologie di imprese che producevano beni di consumo.

Una vista della mostra "Depero con Campari" del 2010
Una vista della mostra “Depero con Campari” del 2010

Anche le Case di moda hanno da sempre condiviso con l’arte una comune fonte d’ispirazione e uno stretto legame simbiotico, basti pensare alla stilista Elsa Schiapparelli che, già negli Anni Venti e Trenta del secolo scorso, collaborò con Salvador Dalì e Alberto Giacometti e realizzò bozzetti e gioielli fortemente influenzati dal movimento Surrealista. Con l’evolversi della società e del mercato, le aziende capirono sempre più le grandi potenzialità dell’arte non solo in campo pubblicitario ma anche da un punto di vista di miglioramento dell’immagine, delle performance economiche e della qualità dell’ambiente di lavoro.  Un’impresa che acquista dipinti e sculture, trasmette al pubblico un’immagine di sé colta, evoluta e socialmente impegnata, mostrando di avere interessi capaci di andare oltre lo scopo puramente economico.

Fino a inizio Anni Cinquanta, la maggior parte delle collezioni nascevano grazie all’interesse personale dei presidenti delle compagnie o per sponsorizzare opere di giovani artisti emergenti. La crescita al sostegno dell’arte da parte del mondo aziendale continuò negli anni, lasciando per la prima volta spazio alla libertà creativa degli artisti, non più obbligati a trattare solamente temi pubblicitari; tuttavia fu durante il boom culturale degli Anni Sessanta che si assistette ad una espansione del fenomeno corporate art collection.

 

Gli anni d’oro del Collezionismo Corporate

 

Uno dei primi a capire l’importanza del connubio tra mondo dell’arte e mondo finanziario, rappresentato dalle banche, fu sicuramente David Rockefeller, dirigente e successivamente presidente della Chase Manhattan Bank dal 1969 al 1980, che, grazie al forte senso degli affari e alla sua profonda passione per l’arte, diede avvio nel 1959 alla prima e pioneristica collezione d’arte corporate della storia. L’impegno e l’interesse di Rockefeller verso il mondo dell’arte è stato particolarmente evidente nel discorso d’apertura alla National Industrial Conference Board che pronunciò nel settembre 1966: «Le arti sono una parte vitale dell’esperienza umana e sicuramente il nostro successo come società evoluta verrà giudicata in gran parte dalle attività creative dei nostri cittadini in riferimento ad arte, architettura, musica e letteratura. Per migliorare la condizione delle performing arts e delle visual arts in questo paese c’è bisogno, a mio giudizio, di uno sforzo di collaborazione enorme in cui le aziende devono assumere un ruolo molto più grande rispetto a quello che avevano in passato. La comunità delle aziende nel suo complesso ha una lunga strada da percorrere nell’accettare le arti come un’area appropriata per l’esercizio della propria responsabilità sociale».

David Rockefeller al lavoro nel suo ufficio alla Chase Manhattan Bank nel 1973. Con lui la segretaria Edna Bruderly.
David Rockefeller al lavoro nel suo ufficio alla Chase Manhattan Bank nel 1973. Con lui la segretaria Edna Bruderly.

Con il passare degli anni infatti la collezione corporate è diventata per le aziende un vero e proprio asset strategico, capace anch’essa di generare valore, orientare il mercato e influenzare favorevolmente il territorio in cui opera. A favorire e ampliare il fenomeno del collezionismo d’impresa negli Stati Uniti, sono stati anche i vantaggi fiscali che per legge spettavano a quelle aziende che investivano in arte per incentivare lo sviluppo e la crescita di questa particolare forma d’investimento. Tre sono state le fasi cruciali sul tema: inizialmente, nel 1964 le imprese potevano detrarre le donazioni fatte, ammortizzandole per un periodo di cinque anni; poi nel 1981 e 1985, le due revisioni sulle normative riguardanti le tasse, mantennero sostanzialmente questi sgravi fiscali per incoraggiare la creazione e lo sviluppo di nuove collezioni d’azienda ma anche di privati; ed infine la situazione cambiò nel 1986, anno in cui la riforma fiscale di Reagan ridusse le detrazioni fiscali e cambiò i regolamenti sulle donazioni, per far fronte a frodi e speculazioni tipiche del mercato dell’arte in quel periodo.

La deduzione fiscale non poteva più essere calcolata sulle quotazioni di mercato ma sull’importo d’acquisto; e dal momento che si presuppone che il valore economico delle opere d’arte aumenti, lo sgravio fiscale, calcolato sul prezzo d’acquisto, sarebbe stato meno vantaggioso. Il provvedimento disincentivò sia il numero di collezioni corporate sia quello delle donazioni ai musei da parte di collezionisti privati e di aziende.

 

Il caso “complicato” dell’Italia

 

In ambito nazionale la situazione si complica, infatti l’ordinamento italiano sul tema del collezionismo d’impresa, sia da un punto di vista di inquadramento contabile sia di normativa fiscale delle opere d’arte, si presenta poco chiaro e ambiguo. Per cercare tuttavia di capire come trattare il patrimonio artistico di un’impresa è necessario distinguere tra imprese che commercializzano opere d’arte da quelle che le detengono per fruirne nel lungo periodo. Le prime collocano i beni artistici tra ‘le rimanenze di magazzino’, quali beni la cui vendita e scambio rappresenta l’attività principale dell’impresa; le seconde invece li considera delle ‘immobilizzazioni materiali’ non ammortizzabili; particolarità di tali beni infatti è che incrementano solitamente il proprio valore di mercato anziché perderlo.

Per quanto riguarda invece la deducibilità fiscale dei costi di opere d’arte, l’ordinamento risulta più chiaro e prevede che le società possano scalare per intero i costi dei lavori acquistati, con un risparmio fiscale del 35% in 5 anni, a patto che queste siano esposte nei locali di rappresentanza dell’azienda.  (Leggi -> Quando a collezionare sono le aziende)

Dario Franceschini, Ministro dei Beni e delle attività culturali e del turismo
Dario Franceschini, Ministro dei Beni e delle attività culturali e del turismo

Mentre un debole tentativo di rendere la normativa sulla tassazione delle corporate art collections più chiara e meno ambigua, si è registrato nel 2014 quando il Ministro Franceschini annunciò l’attuazione della Legge n. 512 del 1982; legge che consentirebbe alle aziende la riduzione del pagamento delle tasse attraverso la cessione di opere d’arte allo Stato. Finora però la proposta sembra aver trovato poco riscontro nella realtà.

Sul tema della fiscalità, si riporta parte dell’intervento dell’analista finanziario, Antonio Mansueto, al convegno Art For Business del 2008, il quale affermò che «risulta evidente quanto sia imprescindibile fissare e rispettare regole chiare e trasparenti, e inderogabile introdurre un regime fiscale capace di incentivare le compravendite e gli investimenti in arte». Poiché il mercato dell’arte contemporanea è atipico, per riuscire ad attrarre tali investimenti, deve mirare «ad essere il più possibile trasparente (fondato pertanto su norme non ambigue), concentrato (individuato da un luogo fisico come aste e fiere in cui si tengono le operazioni di compravendita) e simmetrico (garantito da parità e completezza di informazioni per chi compra e chi vende)».

 

Le corporate collection in tempo di crisi

 

La storia delle corporate art collections è stata poi segnata, alla fine del primo decennio del Duemila, dalla forte crisi economica e finanziaria, che ancora oggi sta lasciando e lascerà segni profondi. La prima reazione più immediata e comprensibile da parte delle imprese è stata quella di tagliare le spese ‘inutili’ o in ogni caso di contenere i costi non strettamente necessari (come quelli in cultura). Tuttavia, trascorsi alcuni anni dalla crisi del 2008, gli studiosi hanno osservato che le imprese, che stanno sopravvivendo e reagendo meglio, sono quelle che hanno continuato a investire in arte contemporanea e a sostenere progetti culturali.

Come suggerisce Pier Luigi Sacco, nella prefazione del libro Arte contemporanea: costo o investimento? di Karine LisbonneBernard Zürcher, «per uscire dalla crisi servono le idee e la capacità di trasformarle in innovazione, in capacità competitiva, in valore aggiunto». Inoltre, «le idee richiedono uno stato mentale e psicologico genuino, spontaneo, nei confronti delle cose, di curiosità e capacità di sorprendersi, di una mente aperta alle possibilità non conosciute e non familiari».

Gordon Knox, direttore dell’Arizona State University Art Museum
Gordon Knox, direttore dell’Arizona State University Art Museum

L’arte, e in particolare quella contemporanea, è una delle poche esperienze in grado di produrre tali condizioni e di integrarle in meccanismi cognitivi e affettivi della propria quotidianità. A tal proposito, interessante è il pensiero di Gordon Knox, direttore dell’Arizona State University Art Museum, il quale è convinto che sarà proprio l’arte a salvare l’economia dalla crisi, dalla monotonia e dalla chiusura mentale e che in un mondo frenetico, di continui cambiamenti e molto competitivo, gli artisti «si trovano più a loro agio degli economisti poiché sono fatti per il cambiamento. Vivono con innovazione, amano la flessibilità, sanno creare dal nulla quel valore aggiunto che tanti uomini d’affare agognano. La pratica artistica irrompe nella pratica aziendale e così, il pensare fuori dagli schemi, diventa la chiave dell’innovazione; la quotidiana creatività degli artisti diventa un fattore critico di sopravvivenza per gli aziendalisti; la comunicazione d’impatto propria dell’arte apre la strada ad un nuovo modo di interagire con il mercato».

L’arte contemporanea e il collezionismo corporate non stanno quindi perdendo il proprio appeal con la crisi, al contrario rappresenta un percorso innovativo e potenzialmente più attraente di quanto non lo fosse stato prima.    

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