Prima di tutto la passione e l’istinto, poi la volontà di «sfuggire alla serialità rassicurante delle tipologie iconiche di molti artisti», per lasciarsi «sedurre più dall’oggetto raro, particolare, meglio se inusuale e atipico». Sono questi i principi guida alla base della collezione di Roberto Casamonti, patron di Tornabuoni Arte, che ha deciso di aprire pubblico, dal 25 marzo prossimo, la sua raccolta privata, allestita in uno dei palazzi più belli del centro storico fiorentino. Quel Palazzo Bartolini Salimbeni che sorge in Piazza Santa Trinita, il primo palazzo ad essere notificato dallo Stato (correva l’anno 1865), posto a due passi da Palazzo Strozzi e di fianco al noto Palazzo Spini Feroni dove si trova il Museo Ferragamo. Ma soprattutto a due passi dal quel n. 5 di Via Tornabuoni dove, nel lontano 1981, iniziò il cammino di Casamonti nel mercato dell’arte. Un inizio, quello del Centro Tornabuoni – così si chiamava quella prima galleria -, che doveva essere più che altro un hobby, ma che in 37 anni si è evoluto in un vero e proprio “impero” con sedi a Milano, Forte dei Marmi, Parigi, Londra e Crans Montana, oltre che nella sua Firenze.
A Palazzo Salimbeni il Casamonti “gallerista” e il Casamonti “collezionista” viaggiano a braccetto, proprio come nella vita reale, accompagnando il pubblico della preview tra le sale e raccontando aneddoti con una freschezza rara per una persona che si avvia allegramente verso i 78 anni di età. «È un’idea nata per esaltare quello che per me è importantissimo – ci dice facendo gli onori di casa e spiegando come è nata, ormai 5 anni fa, l’idea di aprire al pubblico la propria collezione – Questa è la mia vita, il lavoro che ho fatto fin da quando ero ragazzo». La sua storia di collezionista, d’altronde, inizia ben prima della sua avventura di gallerista; negli anni Sessanta quando, introdotto nel mondo dell’arte dal padre Ezio – che già negli anni Cinquanta frequentava gli studi Ottone Rosai e Ardengo Soffici – inizia ad acquistare le prime opere d’arte del Novecento.
E così il percorso espositivo si apre proprio con un bellissimo ritratto di Ezio Casamonti del 1952 a firma di Ottone Rosai. L’opera che viene indicata, a chi lo chiede, come la “numero uno”, l’inizio di tutto (almeno “idealmente”). Sicuramente, un omaggio affettuoso a quella passione paterna che gli ha segnato la vita. «In questa prima selezione – ci spiega – non troverete Boetti o altri autori più moderni perché non ci sarebbe stato lo spazio. E così con Bruno Corà, che mi ha aiutato nella scelta, abbiamo deciso di fare un “primo libro” che va dagli inizi del XX secolo agli anni Sessanta». Si comincia infatti con olio su tela di Giovanni Fattori, In ricognizione, del 1899 e proveniente, pensate un po’, dalla collezione dei Savoia. Poco più in là c’è poi un Balla del 1903: Grande serata nera al Salone Margherita. «E’ un dipinto notificato – spiega al pubblico Casamonti – ma l’ho acquistato ugualmente, visto che la mia intenzione non era di rivenderlo o di farlo scappare all’estero».
Seguirlo per le sale non è solo un grande viaggio attraverso la storia dell’arte, ma anche una preziosa lezione di collezionismo. Di quel collezionismo raffinato che accanto al quadro conosciuto anche dal grande pubblico, ha la sensibilità di porre il lavoro di un artista, diciamo così, più di “nicchia”. Come nel caso di Renato “René” Paresce che con Giorgio de Chirico, Alberto Savinio, Massimo Campigli, Filippo De Pisis, Gino Severini e Mario Tozzi faceva parte dei cosiddetti Italiens de Paris. Un artista bellissimo di cui a Palazzo Salimbeni è esposto uno splendido Paesaggio del 1932.
Ma anche di quel collezionismo che non si preoccupa delle mode e che non va a caccia solo di “trofei”, ma approfondisce. Come nel caso di De Chirico di cui in mostra troviamo, accanto a due opere molto note – una Piazza d’Italia (1955) e un Ettore e Andromaca (1950) -, un suo lavoro rarissimo del 1909: La Passeggiata (o il Tempio di Apollo a Delphi), opera che riecheggia ancora della lezione di Arnold Böcklin. Come raro è lo splendido Fiasco, candela e bollitore del 1940-41 di Renato Guttuso. Opera acquistata dalla collezione dell’imprenditore Francesco Pellin di Varese, grande appassionato del pittore siciliano a cui avrebbe voluto dedicare un museo monografico. Progetto che la scomparsa del collezionista ha fatto naufragare. «Questo Guttuso del 1941 – chiosa Casamonti mentre passiamo davanti alla tela – è un quadro bellissimo. Considerate che Guttuso inizia ad essere Guttuso tra il ’39 e il ’40. E come avere un De Chirico del 1913: una cosa rarissima».
E qui esce tutta l’importanza dell’occhio “buono” per il collezionista, che tra decine di opere dello stesso autore sa individuare la migliore, ma anche la necessità di conoscere la storia dell’arte perché – sottolinea il collezionista fiorentino – «quando si guarda l’arte bisogna guardare anche sempre la data in cui è stata realizzata». «A testimonianza di questo – prosegue – vi faccio vedere un’altra rarità: qui abbiamo un quadro piccolo di Renato Birolli (Uccelli del 1947, ndr), un artista che ha un certo nome. Vedete l’uso che fa delle pietre? Qui siamo nel 1947 e Fontana inizia a mettere le pietre nei suoi lavori solo nel 1952. E’ un quadro stupendo proprio sotto il profilo storico-artistico. Un po’ come quando si parla di Castellani e delle sue estroflessioni: il loro antecedente lo troviamo in quei Gobbi che Alberto Burri realizza 5 o 6 anni prima. Burri ne produce alcuni e poi passa oltre, ma capite che tutto nasce da un qualcosa che rimane nella testa e poi si sviluppa».
L’arte nel racconto di Casamonti esce dai testi di storia e diventa opera vissuta nel suo divenire. Ma anche aneddoto prezioso che mette in guardia tutti coloro che guardano all’arte come mero strumento di investimento. Quanto invece collezionare è cosa tutt’altro che cosa semplice e non bastano certo i soldi per mettere insieme una collezione di pregio. Ma il percorso attraverso il secolo prosegue. Si arriva così alla sala più internazionale dell’esposizione. Quella che in cui l’orizzonte italiano di Casamonti si amplia e, come dice lui stesso, «da fiorentino e italiano lo hanno portato ad esser cittadino del mondo». Picasso, Max Ernst, Paul Klee e Wassily Kandinsky; Leger e un rarissimo Le Courbousier… Lavori spesso di piccole dimensioni ma di una tale qualità da farne veri e propri gioielli, a conferma che l’arte non si misura a spanne.
Ci sono poi alcuni dei primi esempi di astrazione da Hartung al Gruppo CO.BR.A, rappresentato dal terzetto Karel Appel, Pierre Alechinsky e Asger Jorn. E poi Wifredo Lam, Sebastian Matta e Jean Fautrier. Per poi tornare in Italia con il Gruppo Forma 1 dove, accanto a Carla Accardi, Achille Perilli, Antonio Sanfilippo e Giulio Turcato possiamo apprezzare un bel focus su Piero Dorazio di cui sono esposti tre lavori che, in qualche modo, ne ripercorrono le tappe dal 1948 agli anni Sessanta, qui rappresentati da Verdino, splendido reticolo del 1962. Nella sala 4, invece, tre importati opere di Afro dialogano con lavori di Capogrossi, Colla, Tancredi e Vedova. Fino ad arrivare al gran finale: la sala 5; quella che Casamonti sente più vicina al suo mondo.
Una sala dove ci troviamo di fronte ad una piccola “personale” di Lucio Fontana che rivela tutta la passione del collezionista per questo artista. Al centro, Cavallo, un scultura del 1935 in refrattario che Casamonti ha comprato al TEFAF di Maastricht. Poi altre tre opere che, come spiega lui stesso, vogliono essere una «piccola summa della produzione di questo artista che spesso è conosciuto solo per i suoi tagli». E così se i tagli non mancano – rappresentati da uno splendido Concetto Spaziale, Attese del 1965 con sei tagli in diagonale e verticale e in due quote di esecuzione -, l’attenzione è certamente attratta dall’incredibile Concetto Spaziale del 1962 che sembra quasi anticipare le sue celebri Fine di Dio. Mentre al 1956 risale il particolarissimo Concetto Spaziale, L’inferno appartenente ad una serie di 4 lavori di forma esagonale. Gli unici mai realizzati dal padre dello Spazialismo.
Lo sguardo corre poi su un piccolo Albers, una combustione di Yves Klein (Marque de feu – empreinte d’un nu, 1961) e due Achrome di Manzoni e una Jackie (1964) di Andy Warhol di una delicatezza e bellezza incredibili, proveniente dalla collezione di Leo Castelli: «Una pietra miliare di Andy Warhol – ci tiene a sottolineare Roberto Casamonti – che ha una storia ineccepibile perché bisogna stare molto attenti quando si comprano i quadri: ci vuole giudizio». E come dargli torto!
Si passa poi a Scheggi, Burri, Alviani fino a Jannis Kounellis presente in collezione con un Senza titolo del 1961 “costato” a Casamonti quattro anni di corteggiamento e di pazienza prima di poterlo appendere alle pareti della propria abitazione. Anche questo un aneddoto che la dice lunga sulla passione che muove un collezionista. Questo, in estrema sintesi, il regalo di Roberto Casamonti alla sua città che con questo gesto spera di aprire un po’ di più Firenze all’arte moderna e contemporanea, mettendosi al fianco di Palazzo Strozzi, del Museo Marino Marini e di un Museo del Novecento in attesa di rilancio. Ma soprattutto, un’occasione per ammirare una preziosa selezione di circa 100 opere, tra dipinti e sculture, che sono il «frutto di anni di appassionate ricerche che hanno dato vita ad un insieme in grado di rappresentare l’eccezionale evoluzione storico-artistica che attraversa tutto il XX secolo». «Opere a cui sono affezionato – spiega il Casamonti – e che avrei piacere rimanessero alla mia famiglia, ma che ho avuto anche il desiderio che non fossero chiuse nelle nostre case, ma piuttosto, come avviene nei musei, che fossero fruibili al pubblico».