Dopo anni di grande attenzione da parte di collezionisti consolidati (e loro eredi) e potenziali investitori, oggi il mercato dell’arte si trova ad essere un mercato molto più maturo in cui sono in corso processi di concentrazione della domanda e dell’offerta. In altri termini, la grande sfida delle gallerie, oggi, sembra essere quella di conquistare la fiducia del Grande Collezionista, che possa garantire un flusso di acquisti ingenti, così da rendere redditizia l’attività del gallerista.
Ma questo tipo di specializzazione è in parte controproducente: in genere, quando un mercato avvia un processo di questo tipo, tende ad assumere, nel tempo, una sempre più forte concentrazione, in cui pochi soggetti (sia dal lato della domanda, che da parte dell’offerta) determinano il grande mercato, mentre tutti gli altri lo subiscono, sviluppando strategie di adattamento (in genere basate sul prezzo o sul prodotto) che se efficaci, garantiscono loro la sopravvivenza e, in caso contrario, la chiusura.
Questo tipo di processo, tuttavia, poco si addice agli obiettivi e alla natura che sono tipici del mercato dell’arte. Alla base di tale mercato, infatti, c’è sicuramente un carattere di esclusività (unicità) e, in parte, un processo identificativo di tipo pseudo-elitario, ma sono elementi che dovrebbero convivere con un impulso di tipo più democratico, che ambisce a coinvolgere non soltanto chi possiede ingenti risorse economiche, ma anche (e soprattutto) chi tali risorse non le ha.
Detto in altri termini, il mercato dell’arte non può e non deve in nessun modo appiattirsi sui top-lots o sulle case d’asta. E questo sia per ragioni di ordine culturale che di ordine economico.
Dal punto di vista culturale, infatti, un mercato dell’arte che coincide con un mercato delle case d’asta rappresenta uno scenario quasi apocalittico per la cultura: se gli unici concerti disponibili fossero soltanto quelli dei divi del rock (Deep Purple, Pink Floyd, Led Zeppelin, ecc.) non ci sarebbe spazio per l’emersione di un’espressione musicale coerente con il nostro tempo. Allo stesso modo, se le uniche opere d’arte in grado di raggiungere il mercato fossero quelle impressioniste o delle correnti novecentesche non ci sarebbe spazio per artisti giovani, che invece, rappresentano (o tentano di rappresentare) il nostro tempo, la nostra cultura.
Dal punto di vista economico, invece, una tale specializzazione sarebbe un disastro perché il mercato dell’arte finirebbe con il quasi-sovrapporsi al mercato finanziario, e non per questioni di tipo speculativo, ma perché i soggetti cui il mercato dell’arte si rivolgerebbe sarebbero, banalmente, gli stessi.
Il mercato dell’arte dovrebbe invece adottare strategie di estensione della domanda. Dovrebbero essere approcci strategici “integrati” in cui, i vari player che compongono il settore (galleristi, critici, riviste specializzate, advisor, fiere d’arte, ecc.) inizino a strutturare misure volte a raggiungere quote di mercato ancora poco esplorate.
Si tratta, in pratica, di smettere di andare alla ricerca del grande collezionista e iniziare a “coltivare” nuovi collezionisti, grandi ma soprattutto piccoli, anche fuori dal contesto nazionale.
Il nostro mercato dell’arte, più o meno, replica in qualche modo la nostra bilancia demografica (aumento dell’età media, unito all’aumento dell’età pensionabile, implica una concentrazione di poteri che sono sempre in capo alle stesse persone, con poca possibilità, per i “giovani”, di accedere a percorsi di crescita interessanti), ma non dobbiamo dimenticarci che questa situazione socio-economica non è l’unica esistente al mondo. Ci sono intere aree (come il sud est asiatico) in cui il processo di concentrazione di ricchezza, pur essendo molto presente (lì i tassi di crescita dei cosiddetti ultraricchi è molto più elevato rispetto al resto del mondo) non esaurisce tutta la ricchezza disponibile.
Questo significa che, oltre a chi possiede imperi economici e finanziari (parliamo di persone che hanno un reddito netto annuale almeno maggiore di 5 milioni di dollari) esistono anche strati sociali, con disponibilità economiche minori ma che certo non faticano ad arrivare alla fine del mese.
Per loro, il mercato dell’arte ha un’offerta poco valorizzata: fiere, gallerie, case d’asta, tendono anche in questo quadrante a privilegiare la grande opera, lasciando però scoperta una potenziale domanda che invece potrebbe iniziare a costituire, davvero, il grande nucleo del collezionismo contemporaneo. Perché l’arte piace a tutti e, per fortuna, ciò che mantiene vivo questo tipo di espressione non è il grande artista-brand, ma il giovane (o meno giovane) emergente, con quotazioni basse e pochi endorsement da parte della critica.
Lo sviluppo del mercato dell’arte, insomma, passa da qui: creare un nuovo mercato in cui l’offerta (composta da artisti emergenti) riesce ad essere comunicativa per un determinato tipo di domanda (nuovi collezionisti), individuando anche zone che presentano una vitalità sia sotto il profilo demografico che sotto il profilo culturale (spesso, le cose correlano).
Le gallerie italiane che aprono all’estero puntano ai grandi nomi, ai grandi ricchi, e quelle che restano in Italia hanno (fatte le dovute eccezioni) sempre un andamento altalenante delle dimensioni di fatturato. E questo, mentre ci sono paesi come, Brunei, Cambogia, Laos, Malesia, Birmania, Timor Est, Vietnam e Mongolia, che possono rappresentare mercati interessanti almeno quanto lo sono le più inflazionate destinazioni dell’arte degli ultimi anni (Corea del Sud, Giappone, Singapore, Cina, ecc.).
Il mercato dell’arte deve capire che il suo futuro è nella segmentazione dell’offerta. Non si può pensare di mantenere le stesse modalità di profilazione dei collezionisti che si usavano quando non c’era internet. E di certo non basta prevedere la possibilità di partecipare ad aste online per dire che il mercato si sia evoluto.
Si tratta di buon senso: chiunque può comprare un’opera d’arte da 1000 euro. Soprattutto se poi ne spende 800 per un cellulare. Ma a quanto pare, preferiamo guardare, con invidia e con lo stupor che dovrebbero indurci le opere, alle cifre capogiro dei Leonardo e dei Van Gogh.