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La collezione e la vertigine della lista

del

Per comprendere i tratti che fanno dell’oggetto della collezione un ‘oggetto del desiderio’ in senso psicoanalitico è utile prendere in prestito il titolo del libro di Umberto Eco sul tema della lista, intesa in senso lato come serie, elenco, accumulazione, moltitudine caotica di oggetti o sistema ordinato di elementi che si susseguono. In questo contesto, l’adozione del titolo di Eco intende introdurre un parallelismo tra La vertigine della lista, caratterizzante la serialità potenzialmente infinita di ogni collezione, e la ‘lista impensabile’, ossia la definizione che Jacques Lacan dà in Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano dell’avvicendamento degli oggetti del desiderio.

La lista della collezione implica la vertigine dell’infinità, conseguenza del fatto che il sistema della collezione si regge sull’esistenza di una casella che non cessa di rimanere vuota anche dopo ogni nuova acquisizione. Tale struttura somiglia al modello di desiderio descritto da Jacques Lacan che, benché venga parzialmente modificato dallo psicoanalista nel corso del suo insegnamento, non perde la connotazione di catena ‘metonimica’ i cui anelli sono virtualmente infiniti e la cui caratteristica primaria è, dunque, il rinnovarsi continuamente. Questa cattiva infinità del desiderio condannato ad avanzare senza tregua verso il sempre prossimo ottenimento ha alle spalle una spinta propulsiva verso un oggetto ‘impossibile’, effettivamente assimilabile più a uno stato passato e perduto – uno stato di completezza fusionale e simbiotica infantile – piuttosto che a una futura condizione di soddisfacimento e completezza.

La catena metonimica del desiderio che autoalimenta se stesso e la corsa di oggetto in oggetto del collezionista rivelano certamente una certa ‘aria di famiglia’. Sia nella catena desiderante che nella serie della collezione, infatti, gli oggetti non hanno un valore assoluto e ‘per sé’.  Al contrario, questo deriva principalmente dal rinnovamento del desiderio, e dunque dall’esistenza di una progettualità seriale che agisce contemporaneamente come spinta e come meta finale. Ciononostante, una reale completezza e quindi soddisfazione globale non è mai realmente raggiungibile, se non a costo di una totale perdita di senso di un desiderio la cui essenza è il moto (motivo per cui l’immobilità e la singolarità del museo ne costituisce la pietra tombale).

 

Il collezionista, tra desiderio e ordine

 

Spingendo oltre il confronto tra la trama del collezionista e quella del desiderio, è possibile tentare un paragone tra lo stato fusionale perduto che causa l’erranza del desiderio e la spinta al collezionare. Come notato in precedenza, la relazione che si instaura tra il collezionista e i suoi oggetti è riconducibile al fantasma di un rapporto regressivo con l’oggetto, in cui questo costituisce la fossilizzazione in età adulta della complessa elaborazione del distacco dalla simbiosi con il materno (inteso non solo come maternità biologica, ma più in generale come qualsivoglia tipologia di relazione fusionale con l’altro da sé e con il mondo esterno).

Inoltre, la spinta del desiderio che, per Lacan, definisce il soggetto e ne indirizza il percorso esistenziale è assimilabile alla volontà del collezionista di definire, più o meno consciamente, un ordine e un’organizzazione del mondo tramite la costruzione del suo personale sistema. Questo, infatti, ha la funzione rassicurante e gratificante dell’atto ripetitivo e classificatorio combinato con la ricerca del nuovo nel noto, ossia la duplice caratterizzazione che determina la scelta d’oggetto. Non bisogna poi dimenticare che il sistema della collezione ed il suo possesso regalano spesso al collezionista l’illusoria sensazione di controllo sulla vastità caotica dell’esistenza e dell’universo, padroneggiando un territorio ben delimitato del quale si vanta non solo il possesso ma anche il potere della selezione. La vertigine della lista, dunque, è strettamente connessa alla sicurezza dell’ordine immaginario che il collezionista impone tramite la (illusoria?) scelta soggettiva, salvandosi così dall’abisso della possibilità illimitata.

Una panoramica della vasta collezione di opere di artisti afroamericani contemporanei del collezionista Patric McCoy
Una panoramica della vasta collezione di opere di artisti afroamericani contemporanei del collezionista Patric McCoy

Proprio Don Giovanni, emblema della serialità del desiderio, è la figura capace di condensare la mania del collezionismo e la serie vertiginosa di oggetti del desiderio per antonomasia: «collezionare è un desiderio insaziabile, un dongiovannismo degli oggetti per il quale ogni nuova scoperta provoca una nuova tumescenza mentale e genera il piacere supplementare di tenere il punteggio, dell’enumerazione». Diversamente da ciò che si potrebbe pensare, Don Giovanni non si configura tanto come collezionista per l’ossessione di sedurre una moltitudine di donne. Quello che rende Don Giovanni assimilabile al collezionista è la sistematicità della serialità e la coazione a ripetere lungo un’immaginaria linearità, un modello che non rappresenta certamente un’idea di desiderio libero, anarchico, sregolato. Nella dimensione in cui il soddisfacimento impossibile è collocato irreparabilmente fuori dalla lista, Don Giovanni colleziona secondo una spinta simile a quella del bambino che, ancora non elaborata la separazione dal godimento ‘pre-edipico’, rimane aggrappato agli oggetti transizionali senza cercare di liberarsi dalla tirannia del desiderio reiterato. Inoltre, così come quello del collezionista, il desiderio sistematico di Don Giovanni punta al possesso e con esso si esaurisce; l’oggetto è bramato con il fine di impossessarsene e di fissarlo all’interno del proprio personale sistema, senza alcuna pretesa di assolutizzarlo né alcuna illusione, nemmeno transitoria, di essere giunti alla meta finale.

Allo stesso tempo, però, Don Giovanni, esattamente come il collezionista, è ‘onestamente’ e realmente attratto dalla singolarità dell’oggetto del desiderio ogni qualvolta ne riconosce il segno caratteristico che lo attrae irresistibilmente, per cui non può rinunciare al possesso. Se è vero che ‘Qualcuno ha detto che l’innamoramento è la sopravvalutazione delle differenza marginali che esistono tra una donna e l’altra’ (Ginzburg 192), l’imperativo alla serie di Don Giovanni e del collezionista è guidato da uno sguardo iper-sensibile al dettaglio prescelto, un’istanza di sovra-riconoscimento di ‘differenze marginali’ da seguire. Questa attitudine pare essere conseguenza di un occhio addestrato a identificare  la somiglianza nella differenza. Per questo motivo il collezionista, specialmente quello d’arte, è spesso colui che seleziona a causa del particolare e non come conseguenza delle caratteristiche più evidenti e determinanti dell’oggetto o dell’opera in questione.

 

Il paradigma indiziario del collezionismo

 

A questo punto, dunque, sembra lecito innestare sul modello metonimico del desiderio di stampo lacaniano un principio di selezione e scelta parzialmente – e fatte le dovute distinzioni – riconducibile al paradigma intuitivo-indiziario di Carlo Ginzuburg (Spie. Radici di un paradigma indiziario). Il cosiddetto paradigma indiziario di una conoscenza basata più sull’analogia e sull’intuizione piuttosto che sul pensiero logico-argomentativo, infatti, oltre ad essere proprio del detective, dello psicoanalista e della scienza medica è anche essenziale nel procedere del critico d’arte e del ‘conoscitore’. Tale parallelismo è rintracciabile nella descrizione che Benjamin dà della sensazione di evento che ‘capita’ al collezionista, come in un’illuminazione, senza l’intervento di una effettiva scelta volontaria: «Ma è proprio quanto succede al grande collezionista davanti agli oggetti: essi gli capitano. Il modo in cui li insegue e li raggiunge, la modificazione che un nuovo pezzo che si aggiunge apporta a tutti gli altri, tutto questo gli mostra le sue cose in stato di perenne fluttuazione. […] (In fondo si potrebbe dire che anche il collezionista viva un pezzo di vita onirica)».

Nel caso del collezionista, il modello di Ginzburg non si declinerebbe in chiave epistemologica e semiotica, quanto piuttosto ad un secondo livello, in termini di selezione all’interno della caoticità del mondo in cui la serie della collezione è molto spesso definita sulla base del dettaglio, o meglio della spia, piuttosto che sul valore manifesto ed estrinseco degli oggetti. È di nuovo Benjamin che, nelle sue riflessioni sul collezionista, descrive questo sguardo ipersensibile al dettaglio, lo sguardo che ‘vede di più’ e che è colpito proprio da un aspetto apparentemente insignificante e addirittura nascosto per gli occhi del resto del mondo: «uno sguardo che scorge in esso qualcosa di più e di altro che non quello del proprietario profano, e che si potrebbe piuttosto paragonare a quello del grande fisiognomico».

Questo processo risulta probabilmente più visibile ed ovvio nel momento in cui il paradigma indiziario è ricondotto alle sue origini più antiche, ossia quelle venatorie. La ‘caccia al tesoro’ del collezionista, infatti, si configura come un’applicazione modernizzata dello stesso principio per cui la preda viene scoperta e selezionata sulla base del ‘fiuto’, elemento che caratterizza comunemente sia il critico d’arte che il collezionista. Ciò che nel lessico non specialistico viene appunto denominato con questo termine può essere tradotto con un paradigma di conoscenza intuitiva che, per Ginzburg, accomuna il ‘conoscitore’ d’arte con le figure già menzionate (il detective, il medico, lo psicoanalista): «Nessuno impara il mestiere del conoscitore o del diagnostico limitandosi a mettere in pratica regole preesistenti. In questo tipo di conoscenza entrano in gioco (si dice di solito) elementi imponderabili: fiuto, colpo d’occhio, intuizione». Nella sua dissertazione sul paradigma indiziario, infatti, Carlo Ginzburg menziona il medico Giulio Mancini, autore di un’opera diretta «non ai pittori ma ai gentiluomini dilettanti – quei virtuosi che in numero sempre maggiore affollavano le mostre di quadri antichi e moderni che si tenevano ogni anno al Pantheon». Ecco allora che, sebbene non citato esplicitamente, il collezionista sembra emergere in filigrana come colui che può dedurre il proprio criterio di scelta dalla semeiotica medica e dalla divinazione delle tracce. Dunque, sembra valida anche per il collezionista l’equazione per cui «Sarà permesso a questo punto vedere nell’accoppiata occhio clinico – occhio del conoscitore qualcosa di più di una semplice coincidenza».

 

Bibliografia

Benjamin, Walter. I ‘passages’ di Parigi. Trad. Renato Solmi. Torino: Einaudi, 2002.

Eco, Umberto. La vertigine della lista. Milano: Bompiani, 2009.

Ginzburg, Carlo. “Spie. Radici di un paradigma indiziario”. Miti emblemi spie. Morfologia e storia. Torino: Einaudi, 1986. 158-209.

Molfino, Francesca e Alessandra Mottola Molfino. Il possesso della bellezza. Dialogo sui collezionisti d’arte. Torino: Umberto Allemandi & Co., 1997.

[infobox maintitle=”Nota dell’autore” subtitle=”Questo articolo, rivisitazione del mio precedente lavoro ‘La lista impensabile’ (pubblicato su Enthymema, VIII, 2013), è dedicato ad una collezionista appassionata: Linda De Dominicis” bg=”gray” color=”black” opacity=”off” space=”30″ link=”no link”]

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