Francia, anno 1960. Arman sta sviluppando le sue Accumulazioni d’oggetti e sperimentando le prime Colères con oggetti distrutti; Niki de Saint Phalle realizza i primi Tirs o Shooting paintings: sparando con una carabina su bersagli su cui sono fissati sacchetti di vernice, ne fa colare il contenuto sul supporto, in un atto performativo dalle valenze rituali e catartiche; Daniel Spoerri, da poco arrivato a Parigi dalla Germania, crea i suoi tableaux-pièges («Oggetti trovati casualmente in situazioni di disordine o di ordine vengono fissati al loro supporto esattamente nella posizione in cui si trovano. L’unica cosa che cambia è la posizione rispetto all’osservatore: il risultato viene dichiarato un quadro, l’orizzontale diventa verticale. Esempio: i resti di una colazione vengono attaccati al tavolo e, insieme al tavolo, appesi al muro», secondo la definizione dell’artista stesso)… È l’anno della costituzione ufficiale di un gruppo di artisti che il critico Pierre Restany, con formula fortunata, battezza Nouveau Réalisme, dove il realismo è letteralmente legato all’utilizzazione di oggetti di uso quotidiano, spesso “vili” anche rispetto a quanto sdoganato fino ad allora in ambito artistico (incluso nella coeva Pop Art; forse chi si era spinto più in là fino ad allora era Robert Rauschenberg con i suoi combine paintings).
Nel 1960 César (César Baldaccini, 1921-1998), membro della prim’ora del gruppo, realizza le sue prime compressioni: gli oggetti — anche di enormi dimensioni — vengono compressi in una pressa idraulica, a mo’ di rottami stoccati. Come per quasi tutti i Nouveaux Réalistes, è presente in queste sue opere la doppia sfida di una critica alla mentalità consumistica che stava pervadendo il mondo con il suo ciclo produzione-consumo-distruzione, collegata però alla ricerca di una nuova esteticità — lontana dall’astrattismo come pure dalla figurazione e dal Realismo Socialista — che più che al ready made o all’objet trouvé di duchampiana memoria si rifaceva semmai idealmente a Kurt Schwitters.
Ma qual era stato il cammino di César fino ad allora? «Io non sono un intellettuale. Provengo da un ambiente popolare. Le prime sculture che ho visto, le ho trovate nei cimiteri. Sono di una famiglia d’origine toscana e, se fossi rimasto tra Carrara e Montecatini, penso che sarei diventato uno sbozzatore: l’aiuto di uno scultore. Avrei lavorato con Henry Moore forse. Oggi sono diventato scultore, non sbozzatore per altri, ma sono comunque un artigiano manuale. Il mio approccio all’arte avviene a un livello istintivo. Ho fatto molta scuola, ma fondamentalmente sono un autodidatta assoluto», dichiarerà l’artista in una conversazione del 1990. Figlio di un emigrante italiano costruttore di botti, César aveva iniziato a 14 anni a frequentare le lezioni serali presso l’École des Beaux-Arts di Marsiglia, sua città natale, entrando poi nel 1943, grazie a una borsa di studio, all’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts di Parigi, città in cui si trasferirà definitivamente subito dopo la guerra grazie a un’altra borsa di studio triennale con cui proseguirà gli studi.
All’inizio degli anni Cinquanta inizia a creare sculture utilizzando materiali metallici di recupero — spesso reperiti nelle discariche — più che altro per la penuria di denaro che gli impediva l’acquisto del marmo. La prima uscita pubblica è del 1954, presso la Galleria Lucien Durand di Parigi, dove espone Le Poisson, scultura in rottami di ferro saldati che aveva ottenuto il Prix Collabo dell’École des Beaux-Arts e che verrà acquistata l’anno seguente dal Musée National d’Art Moderne; nel 1955 partecipa per la prima volta al Salon de Mai; l’anno successivo è alla Biennale di Venezia e a Parigi espone alla Galerie Rive Droite assieme a Alberto Burri; le prime personali — a Parigi e a Londra — nel 1957; nello stesso anno partecipa alla Biennale di São Paulo e, nel 1959, a dOCUMENTA 2 e alla collettiva New Images of Man al MoMA di New York.
Nonostante questo curriculum, le sue tre automobili compresse esposte al Salon de Mai del 1960 creano scandalo; sette anni dopo, ancora al Salon de Mai, César presenterà invece La grande expansion orange in poliuretano, quasi un contraltare alle compressioni; nel frattempo, stimolato dall’invito a partecipare a una mostra collettiva sul tema La Main, de Rodin à Picasso, l’artista aveva realizzato nel 1965 il primo dei suoi celebri Pollici, riproposti in seguito anche a dimensioni monumentali. Alla fine degli anni Sessanta, comunque, contestati o meno i Nouveaux Réalistes sono ormai artisti affermati e riconosciuti, e il gruppo costituirà una delle influenze più durature sullo sviluppo dell’arte contemporanea, anche se negli ultimi vent’anni non mi pare che questo sia stato sufficientemente sottolineato (nonostante l’evidente imitazione, da parte di artisti delle ultime generazioni, di temi e istanze nouveaux réalistes: ignoranza o malafede? Da parte degli artisti o dei critici e galleristi loro mentori?).
«Da dove veniamo noi, noi gli scultori contemporanei? Noi veniamo da Dada, da Duchamp, dai Surrealisti. Nessuno ha mai inventato niente da solo: noi siamo gli eredi gli uni degli altri. E io, nel mio piccolo ambito, quando ho realizzato la mia prima compressione si aveva giustamente ragione ad assimilarla a un gesto dada. D’altra parte sono stato molto legato al movimento. Sono stato amico di Man Ray, di Max Ernst e dei surrealisti. Senza parlare di Giacometti di cui sono stato quasi vicino di pianerottolo. Ho visto spesso anche Miró. Tutto questo è la realtà della mia vita, e questa ha plasmato la mia maniera di apprendere l’oggetto», ha dichiarato l’artista sempre nella conversazione su citata.
La bellissima retrospettiva dedicata a César in corso al Centre Pompidou di Parigi (fino al 26 marzo) presenta 126 opere che coprono tutto l’arco d’attività dello scultore: in un efficace allestimento open space suddiviso in dieci settori cronologico-tematici, si va da Le coq del 1947 — capostipite di tutto un bestiario fantasioso di cui è capolavoro L’Esturgeon del 1954 — fino all’ultima realizzazione dell’artista, ovvero la Suite Milanaise del 1998, costituita da compressioni di carrozzerie d’automobili Fiat Marea dipinte con la gamma dei colori metallizzati dell’epoca.
Dal “figurativo” del primo periodo (notevole L’homme qui marche del 1954 che dimostra le affinità con Giacometti — come d’altro canto si potrebbero trovare collegamenti, non privi di ironia, con Fontana nelle due Râpes [“Grattugie”] del 1960…) alle compressioni (rimarchevoli in particolare la Compression “Ricard” del 1962 e l’automobile Dauphine 1959 del 1970); dalle impronte umane (i Pollici, la gamma polimorfa degli Autoritratti, il Seno di una ballerina del Crazy Horse…) alle espansioni: la produzione di César è in questa mostra molto ben esemplificata. Mancano forse alcuni aspetti “minori” ma importanti, come l’opera grafica dell’artista che è una via alternativa e interessante per entrare nel suo laboratorio creativo (rimando al bel volume César – Expériences Graphiques, pubblicato nel 2015 da Arnaud Bizalion Éditeur, che presenta i lavori su carta appartenenti alla collezione del fotografo Jean Ferrero, amico e gallerista storico di César) o le opere in vetro e in cristallo; in compenso ci sono alcune gradite sorprese, come l’opera stilizzata e ironica Petit déjeuner sur l’herbe (1957) o la serie poco conosciuta degli Enveloppages in plexiglas del 1971, che avvicinano l’artista marsigliese al suo collega bulgaro Christo.
Non è possibile scindere l’ispirazione artistica di César dal lavoro e la sperimentazione sui materiali: in questo senso è intelligente la scelta di proiettare, in entrata all’esposizione, dei video documentari che riprendono l’artista all’opera. César, pur servendosi talvolta necessariamente d’assistenti, partecipava sempre in prima persona, fisicamente, o — nel caso dell’utilizzazione di macchine industriali — supervisionando costantemente la realizzazione delle proprie opere. Pur accettando il margine di aleatorietà presente in partenza nella concezione di lavori come le compressioni o le espansioni, il gesto d’artista rimase una costante per tutta la sua carriera, in un’epoca fortunatamente ancora lontana da quella attuale dell’artista/progettista/manager: un’epoca in cui — testimone il gioioso divertimento dei molti bambini in visita a questa esposizione — credere nella serietà del proprio lavoro non implicava necessariamente il prendersi troppo sul serio.