New York, 25 gennaio – Nel cuore di SoHo, a Manhattan, c’è un capolavoro nascosto. The Broken Kilometer di Walter De Maria è una grande installazione realizzata nel 1979 in uno stabile al 393 di West Broadway, e ancora lì custodita grazie alla Dia Art Foundation, organizzazione che ha — tra i suoi scopi — la conservazione di opere ambientali e di Land Art (incluse la celeberrima Spiral Jetty realizzata nel 1970 da Robert Smithson nel Great Salt Lake nello Utah, Sun Tunnels di Nancy Holt nel Great Basin Desert sempre nello Utah, The Lighting Field dello stesso De Maria nel deserto del New Mexico).
The Broken Kilometer consiste in 500 barre di ottone splendente, ciascuna di 2m di lunghezza e 5 cm di diametro, disposte parallelamente in cinque file all’interno di un ambiente di quasi 530m². L’effetto è di grande armonia e bellezza, al di là del riuscitissimo connubio di Minimalismo e Arte Concettuale. L’ingresso è libero, anche se con orari un po’ particolari, almeno per New York.
Poco lontano, al 141 di Wooster Street, si trova un’altra opera ambientale di De Maria sempre curata dalla Dia Art Foundation: The New York Earth Room del 1977. Qui un appartamento al primo piano dello stabile è stato invaso da quasi 200m³ di terra per un’altezza fino a 56 centimetri rispetto al pavimento. È un’opera forse meno interessante, anche se notevole è il ribaltamento concettuale rispetto alla Land Art: non vi è intervento umano in un ambiente naturale, ma si fa invadere dalla natura un ambiente (chiuso) urbano. (Sulla Land Art e i suoi alfieri storici Heizer, Smithson e De Maria esiste un bellissimo documentario del 2015, facilmente reperibile anche su YouTube: Troublemakers di James Crump).
Per quanto riguarda il Minimalismo, invece, non lontano dal Broken Kilometer — al 101 di Spring Street — vi è una delle due sedi della Judd Foundation (l’altra è a Marfa, Texas): si possono visitare gli ambienti della casa-studio di Donald Judd, uno dei massimi esponenti del movimento. Le visite sono guidate e vanno prenotate in anticipo.
Come raccontavo nell’articolo precedente, SoHo (acronimo di “South of Houston Street”: quest’ultima è l’arteria che delimita la zona a nord) è stata per decenni l’area privilegiata dell’arte contemporanea “di tendenza”: Paula Cooper fu una delle prime gallerie ad aprire qui, nel 1969. Ma negli ultimi anni, con uno di quei ribaltamenti piuttosto subitanei, tipici dell’ambiente artistico newyorkese, le gallerie più importanti hanno cominciato a migrare alla volta di Chelsea, una ventina di isolati a nord ovest, oltre il Greenwich Village (la stessa Paula Cooper ha ora due spazi sulla 21ma e 26ma Strada Ovest). A SoHo rimangono molte gallerie ma, a quanto vedo, espongono artisti meno importanti o — direi soprattutto — vendono multipli, inclusi oggetti e manifesti, di autori “sempreverdi”: Picasso, Chagall, Miró, Dalí, Warhol, Haring i più gettonati.
Decido di andare a vedere la personale di Georg Baselitz che ha inaugurato ieri nella sede di Gagosian sulla 24ma, appunto a Chelsea. Mi incammino verso nord sulla Washington Street, anche per passare, all’estremità ovest dell’11ma, accanto a Palazzo Chupi che è la casa-residenza-reggia di Julian Schnabel. Svettante nella sua altezza — che ha superato più del doppio i limiti imposti dal piano regolatore del Greenwich Village, con strascichi legali —, con l’inconfondibile (e incredibile) colore rosa dei piani superiori aggiunti, con stili architettonici sovrapposti che dal primo Novecento newyorkese si spingono ai pueblos ibridati con il Rinascimento veneto… Palazzo Chupi è senz’altro un’esperienza. Sul portone d’ingresso, tra avvisi di divieto di parcheggio, è dipinta in rosso la scritta Casa del popolo, in italiano.
Poche strade dopo posso salire sulla High Line, la camminata-parco realizzata su una sezione in disuso di una ferrovia sopraelevata. Non si dimostra un’idea geniale: il vento che viene dall’Hudson poco distante morde e taglia. Riesco ad arrivare comunque sano e salvo alla 24ma.
Bellissima la mostra di Baselitz. 35 dipinti su tela e 65 opere su carta, tutti di grandi dimensioni e realizzati nel 2018, riempiono gli ampi spazi della galleria, strutturata come un mini-museo e ammantata da un’aura vagamente templare. Le opere sono tutti ritratti, ovviamente capovolti, di artisti presenti e passati: il titolo Devotion testimonia del debito evidentemente espresso da Baselitz nei loro confronti. Si va da Munch a Fontana, da Mondrian a Lichtenstein fino ad artisti delle ultime generazioni come Cecily Brown; alcuni soggetti sono indicati solo con le iniziali del nome; vi è poi un autoritratto (Io), e un paio di ritratti di Schönberg, che del resto era anche pittore. La figuratività si muove dal semplice sketch a una maggiore chiave di penetrazione psicologica (bellissimi i disegni dedicati a Mark Rothko e a Tracey Emin), fino a dipinti dove la matericità sconfina quasi nell’astratto (particolarmente belli, in questo senso, Frank Auerbach, Willem II e L.F.).
L’impressione di potenza della mostra è forse collegata più all’allestimento nel suo complesso che all’entità delle singole opere. Diciamo che forse un collezionista dotato di sufficiente disponibilità economica farebbe meglio a comprare più opere da esporre riunite che il singolo pezzo. Cosa che, credo, per un cliente di Gagosian a New York non costituisca un problema.