Dagli anni Venti del Novecento le avanguardie artistiche, in primis il Dadaismo, iniziano a interessarsi alla fotografia facendo un uso del mezzo fotografico per lo più evocativo, per cui spesso l’oggetto ripreso è trasfigurato, assemblato, rivoluzionato, portato a significare altro.
Nel segno di DaDa
E’ Marcel Duchamp (1887-1968) che risemantizza la fotografia in maniera rivoluzionaria, rendendo evidente il fatto che la fotografia assomigli a un quadro ma in realtà funzioni come un ready-made. In Duchamp troviamo tutte le spinte artistiche che verranno poi enucleate nel corso del secolo: dalla rappresentazione dell’ambiguità sessuale (Rrose Selavy – 1920 ca.) all’indifferenza verso la capacità tecnica (molte delle sue fotografie furono scattate dall’amico Man Ray), alla contaminazione con altri mezzi espressivi attraverso i fotomontaggi che, diversamente da quelli ottocenteschi che miravano ad un’assoluta verosimiglianza, puntano più sull’associazione di idee – mescolando fotografie, disegni e stampe tipografiche -, vengono usati soprattutto nelle riviste e a scopi propagandistici, intrecciandosi così strettamente alla storia politica del primo Novecento.
Europa Vs U.S.A.
La pratica fotografica si libera da certe formalità e nascono così le Rayografie di Man Ray (1890- 1976) e i fotogrammi di Làszlo Moholy Nagy (1895-1946), creati con le tecniche ideate da Talbot nell’Ottocento; nascono le doppie pose di (18895- 1956) e i suoi arditi tagli prospettici.
Interessante rilevare come gli aspetti più innovativi della fotografia in questo periodo si spostano di nuovo verso l’Europa, mentre l’America con Weston e Steiglitz si arrocca su un neopittorialismo che continua a seguire i parametri dell’estetica pittorica e della perfezione tecnica. La giovane nazione resta ancorata alla ripresa pura del soggetto forse perché deve ancora finire di conoscere se stessa, il suo territorio. Nasce in quest’ottica il grandioso progetto della Farm Security Administration del 1935 che ordina una campagna fotografica sulla condizione della vita rurale statunientese. Memorabili i lavori di Walker Evans (1903-1975) e Dorothea Lange (1895-1965) che sentono fortemente il valore della foto come documento e riescono in questi reportage a trasformare il contingente in valore assoluto.
Il Surrealismo e l’affermazione come Arte
E’ soprattutto la poetica surrealista che, esaltando la capacità di registrare in maniera automatica ciò che propone il mondo, vede nella macchina fotografica il mezzo ideale per questo fine, portando così la fotografia a essere riconosciuta arte per quello che è, senza bisogno di manipolazioni manuali, di sovrastrutture estetiche.
In questa nuova ottica assurge a simbolo perfetto del Surrealismo Eugene Atget (1857- 1927) che conobbe una straordinaria fortuna postuma per le sue fotografie di scorci anonimi di Parigi, trattati come object trouvé e, non a caso, la sua fortuna nasce dall’interesse dell’assistente di Man Ray, Berenice Abbott.
Nell’ambito surrealista interessanti sono i lavori di Brassai (1899- 1984), in particolare la schedatura dei graffiti anonimi lasciati sui muri di Parigi, che anticipa l’aspetto della performance e dell’idea di arte pubblica che sarà centrale nei decenni seguenti.
Professione Fotoreporter
Tra le due guerre si diffonde la professione di fotoreporter e il fotografo inizia ad essere presente ovunque: dagli eventi ufficiali, alla cronaca, agli scenari bellici e tutto questo materiale confluisce nelle riviste che si fanno sempre più numerose e diffuse, una su tutte l’americana Life (1937-) i cui fotografi sono i primi ad essere mandati al fronte durante la Seconda Guerra Mondiale.
Il fatto che le fotografie vengano fatte per essere pubblicate fa sì che siano i redattori a scegliere le immagini più adatte ad illustrare la storia, andando così a formare quello che sarà il gusto del pubblico, la sua attesa; sulla lunga distanza questo condizionerà una larga parte della fotografia cosiddetta “industriale”: da quella dei paparazzi a quella pubblicitaria.
Compagna inseparabile dei fotoreporter è la macchina fotografica automatica che, dagli anni Trenta, è rappresentata dalla Leica, duttile in ogni situazione, sia sulla scena dello sbarco in Normandia con Robert Capa (1913-1954), sia nelle istantanee “costruite” di Henri Cartier- Bresson (1908 -2004). Proprio Cartier-Bresson ha la capacità unica, riconoscibilissima e difficilissima da replicare, di catturare l’istante in cui il soggetto è nel suo aspetto più significativo, con un’armonia di forme, espressione e contenuto.
Robert Capa, Henri Cartier- Bresson e, in maniera ancor più precisa, Robert Frank (1924 – col libro The Americans – 1958), Williem Klein (1928-) e Weegee (1899-1968 – col libro Naked city – 1945), si contraddistinguono per la loro continua tensione ad essere immersi nel mondo e per cercare sempre la relazione uomo-mondo; famosa la frase di Capa a riguardo: «Se una foto non è venuta bene vuol dire che non eri abbastanza vicino». Questo approccio verso il mondo è lo stesso che caratterizza la corrente dell’arte Informale che domina Europa e America dalla fine della Seconda Guerra Mondiale agli anni Sessanta e che in pittura ha risultati visuali diversissimi, basati sulla macchia, il grumo, la spontaneità del gesto.
Tra arte e pubblicità
Si arriva così alle porte degli anni Sessanta e all’esplosione della Pop Art, incarnata senza dubbio dalla figura di Andy Warhol (1928-1987) e della sua Factory. E’ del 1964 anche il testo rivoluzionario di McLuhan che con il suo slogan, “il medium è il messaggio”, enuclea finalmente l’importanza del mezzo con cui si vuole comunicare.
La Pop Art estranea oggetti di uso quotidiano dal loro contesto utilitaristico con l’isolamento e l’ingrandimento (per esempio le scatole “Brillo”), dando loro un rilievo eccezionale, ma senza esprimere alcun giudizio. La fotografia, nei riguardi del mondo, fa le stesse cose: separa un oggetto dal suo contesto e lo esalta, ma al tempo stesso non lo giudica. Da sempre la fotografia era stata criticata dall’arte ufficiale per queste sue caratteristiche inalienabili, con la Pop Art invece troviamo una coincidenza sorprendente: fondante sia la frase di Warhol – «vorrei essere una macchina» – sia la sua passione per i ritratti fatti nelle cabine automatiche per le fototessere.
La sospensione del giudizio, la forte voglia di relazionarsi col mondo, non in modo empatico, ma identificandosi quasi nella macchina fotografica, si trova in tutta l’opera di Diane Arbus (1923-1971), allieva di Lisette Model (1901-1983), e famosa per le foto di “mostri”: il non-giudizio della Pop Art le permette di avventurarsi in qualsiasi ambito, con un desiderio di accumulo di più soggetti possibili, fattibile principalmente grazie alla fotografia. Si apre, così, la strada a una maggior commercializzazione dell’arte: la pubblicità inizia a servirsene e viceversa, e l’artista comincia a muoversi tra i due mondi senza nessuno “scrupolo”, fino ad arrivare ad oggi dove un artista come David LaChapelle (1963-) può usare l’identico suo prodotto per una pubblicità e per un museo.
Gli anni Settanta: Narrative Art e Conceptual Art
Gli anni Settanta sono caratterizzati da movimenti artistici che si allontanano sempre di più dalla vecchia idea di immagine e si dedicano alla performance e a modalità artistiche estemporanee: Body Art, Narrative Art e Conceptual Art.
In tutte e tre la fotografia è stata necessaria per eternare il gesto e il suo uso non è stato meramente funzionale, bensì strettamente connesso al messaggio dell’artista. Ciò che fa Arnulf Rainer (1929-), con le sue pose goffe ed estreme, oppure Urs Luthi (1947-) col suo trasformismo ambiguo o, ancora, Luigi Ontani (1943-) con la sua divertita e fantastica oniricità, trova il vero mezzo espressivo nella fotografia intesa come specchio in cui inverare una parte di se e, in quest’ottica, si possono leggere e capire artisti dai risultati del tutto diversi come Gina Pane (1939-1990) o Francesca Woodman (1958-1981).
La Narrative Art può essere divisa in due filoni, quello che si richiama a dei fermi immagine di film, congelando un attimo di un’azione che lascia lo spettatore spaesato e curioso: impossibile capire cosa è successo prima e cosa succederà dopo (Cindy Shermann 1954-, Duane Michals 1932-); e quello che si richiama alla tipologia degli album di famiglia per qualità fotografica e per la presenza a volte di didascalie, come nell’opera di Nan Goldin (1954-). La sua capacità empatica coi soggetti è disarmante ed allarmante e prevalica qualsiasi aspetto formale dell’opera per evidenziare la totale fusione con il momento ripreso; non a caso tutta una serie di fotografia narrativa viene etichettata come “stile Goldin”.
Sia la Narrative Art che la Conceptual Art vanno verso una denigrazione dell’aspetto tecnico-formale della ripresa e della stampa fotografica, da un lato, per evidenziare il più possibile la natura indicale della fotografia, cioè la sua imprescindibile relazione col mondo e la sua capacità di evocare emozioni e concetti (in sintesi: il suo valore è più concettuale che formale); dall’altro, perché sentono di dover combattere ancora contro la dicotomia ottocentesca dove la capacità tecnica pareva sopperire a un’incapacità artistica.
Gli anni Ottanta e il kitsch
Questo aspetto di noncuranza tecnica scompare negli anni Ottanta ad opera di due grandi figure quali Robert Mapplethorpe (1946-1989) e Helmut Newton (1920-2004) che con la loro opera sintetizzano perfettamente la ventata edonistica di libertà ed emancipazione del decennio.
Mapplethorpe, con la sua qualità fotografica alta, pittorica e precisa, ha la capacità limpida, pura ed essenziale di riportare sulla gelatina scene di atti sessuali espliciti, in cui è spesso partecipe, in una completa fusione tra arte e vita (i suoi modelli sono amici ed amanti).
Newton, invece, parte da una carriera di fotografo di moda per approdare poi a personali e musei; crea un’arte algida e perfetta, ma lontanissima da una qualche esperienza reale di vita: i suoi nudi sono “troppo”, i suoi ambienti sono di una ricercatezza stereotipata e solletica l’animo voyeristico dello spettatore che indugia alla ricerca del dettaglio più lubrico.
Il meccanismo di portare a livelli qualitativamente alti contenuti di “serie B” , quali la pornografia, infrange del tutto le barriere tra contenuti “alti” e “bassi” e attua appieno l’ingresso del kitsch nell’arte. Ingresso che pare sancito anche dall’abbandono del colore per certi soggetti e l’uso quasi esclusivo del bianco/nero; una caratterizzazione estetica che a volte può apparire stridente con la forte spinta alla rottura di canoni presente nella fotografia contemporanea, ma che di fatto connota la maggior parte della produzione artistica del periodo. Solo un certo tipo di arte, che vuole omologarsi all’uso popolare della macchina fotografica, fa uso del colore, ma spesso in maniera non calibrata, disattenta, proprio come succede per gli scatti della gente comune. E’ stato William Eggleston negli anni Settanta a sdoganare un uso del colore calibrato e corretto ed elemento portante del messaggio (“Triciclo”, 1970).
Gli anni Novanta e la Scuola di Düsseldorf
La cura formale nella costruzione dell’immagine di Mapplethorpe e Newton rivela come ormai l’aspetto concettuale che vive nell’immagine fotografica abbia preso il giusto sopravvento su trite convinzioni pittoriche e fa sì che fotografi trascurati negli anni Settanta proprio, per le loro capacità, trovino negli anni Novanta un riscontro e un successo planetario.
Paradigmatica la coppia Becher, Bernahard (1931-2007) e Hilla (1934-), fautori di una fotografia rigorosa ed oggettiva basata sulla schedatura del mondo; eredi di August Sander (1876- 1964) e del suo grandioso progetto di Face of our time, osteggiato dal regime nazista; riprendono la sua impostazione asciutta, documentaria per la catalogazione di “tipi”, nel loro caso non umani ma architettonici (silos, industrie etc.). Insegnanti all’Accademia di Düsseldorf formano artisti come Candida Hofer (1944-), Thomas Ruff (1958-), Thomas Struth (1954-) e la loro influenza è evidente nelle opere di tutti e tre.
Interessante è notare come per questo gruppo sia nodale anche la dimensione e la collocazione della foto nell’esposizione museale. Nulla è lasciato al caso: la foto è concepita in un punto preciso di una sequenza decisa dal fotografo ed è inamovibile e inalienabile dalla stessa; le dimensioni, spesso enormi, aumentano, da un lato, il senso di straniamento (per esempio le “fototessere” di Ruff), dall’altro, agevolano l’immersione totale dello spettatore nell’immagine ( le “biblioteche” della Hofer).
La fotografia in Italia
Nel panorama italiano spicca negli anni Settanta l’opera concettuale di Franco Vaccari (1936-), sia a livello fotografico che teorico, con la pubblicazione nel 1979 di “La fotografia e l’inconscio tecnologico”, testo in cui difende il carattere basso della fotografia e ricusa il concetto di autorialità nell’atto fotografico; esemplare in tal senso la sua esposizione a Venezia del 1972. L’autonomia della macchina fotografica è perfettamente esplicitata anche nelle opere di Giulio Paolini (1940).
Negli anni ottanta vediamo emergere sul territorio nazionale un movimento nuovo ed originale che si incentra sul paesaggio visto non in maniera trionfalistica, “da cartolina”, ma come paradigma della precarietà di ciò che siamo; un paesaggio “debole” sempre al confine tra urbano e rurale, tra uso ed abbandono. Il movimento è caratterizzato da un’attenta cura formale dello scatto (prospettiva, bilanciamento luci, etc.); immagini belle che non nascono da un gusto estetico, ma dalla volontà di inverare un’esperienza umana. Alfiere del movimento è Luigi Ghirri (1943- 1992) coi suoi paesaggi dai colori brumosi, dimessi e discreti che, formalmente perfetti, danno una sorta di tranquillità e di piacere estetico per poi turbarci con il vero messaggio sottostante. Di non meno rilievo l’opera di Gabriele Basilico (1943) che dichiara esplicitamente di rifarsi all’insegnamento di Walker Evans per la sua fotografia descrittiva, inverata soprattutto nei paesaggi architettonici. Nei suoi scatti Basilico mira a una sospensione del giudizio su quanto riprende e a un dialogo continuo col mondo perché: cosa ci condiziona di più di quello che ci sta intorno?
Sulla stessa linea si muovono Olivo Barbieri (1953-), Guido Guidi (1941-), Mimmo Jodice (1934-) e pochi altri che hanno fatto grande la fotografia italiana nel mondo; ma all’interno del contesto italiano il loro esempio ha creato solo epigoni con pochi guizzi di originalità.
L’era digitale
Altro spartiacque nella storia della fotografia è l’arrivo della tecnologia digitale che, sovvertendo la modalità di ripresa dell’immagine, ha creato inizialmente problemi di ordine teorico, di fatto superati e smentiti dall’uso libero ed entusiasta da parte degli artisti di questa nuova possibilità artistica. Col digitale l’immersione nel mondo è a 360 gradi, 24 ore al giorno e allo stesso tempo la creazioni di mondi onirici e paralleli non ha più limiti. Artisti e materiali si moltiplicano a dismisura ed è in pratica impossibile seguirne percorsi ed evoluzioni.
Il crescente successo della fotografia ha fatto sì che privati (gallerie, collezionisti) ed istituzioni (musei, fondazioni) si aprissero anche alla scoperta di artisti non occidentali (soprattutto africani ed orientali) portando alla pubblicazione e diffusione delle loro opere, ampliando ulteriormente il panorama da analizzare.
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