Oslo, Norvegia. Gelida mattina di un autunno scandinavo. Un uomo cammina a passo svelto attraverso la piazza antistante la piccola cattedrale. Raggiunto l’ingresso, spinge il pesante portone ed entra.
Abbacinato per un istante dallo scambio tra la luce esterna e la semioscurità dell’interno, attraversa a passi silenziosi la navata, dirigendosi verso il presbiterio. Davanti all’altare lo stanno aspettando il parroco, un sagrestano e alcuni laici. È il restauratore che con la sua squadra ha eseguito l’intervento sugli arredi lignei principali della chiesa.
Nessuno ha notato il suo arrivo ma ha appuntamento con loro e lo stavano aspettando. Alcuni di loro hanno lo sguardo rivolto verso gli intricati intagli della bella pala lignea barocca posta a ridosso dell’altare. Altri verso il pulpito arrampicato lungo il fianco della navata.
Il restauro recentemente concluso non convince. La doratura di quegli intagli non risplende.
Le consultazioni avvenute all’interno del consiglio pastorale erano state chiare: tutti avrebbero gradito una doratura ex-novo, che ridonasse brillantezza agli arredi sacri. Certamente l’intervento di restauro ha rinfrescato l’oro, ma non quanto ci si aspettasse, come se il restauratore avesse lesinato in decisione per timidezza. In fondo è risaputo che lo splendore dell’oro amplifichi il fervore della preghiera durante la liturgia, e quindi perché limitarsi?
Il problema del processo decisionale che precede gli interventi conservativi sul patrimonio, coinvolgendo diversi “stakeholder”[1] che possono essere sia addetti ai lavori, mossi da deontologia professionale, che non addetti, spinti da interessi di altro genere (di tipo storico, sentimentale, eccetera), comporta un punto nodale per una visione del restauro che sia sostenibile, ovvero rispettoso del diritto alla trasmissione del patrimonio alle generazioni future.
Nel caso appena visto[2], notiamo che il restauratore ha preso una scelta – assolutamente corretta dal suo punto di vista – in maniera unilaterale: la doratura originale era in condizioni accettabili e non ha ritenuto né necessario né corretto un intervento radicale come la posa integrale di nuove foglie d’oro. Ha agito secondo la sua etica pensando di fare la cosa più giusta, ma la sua scelta non è stata compresa dalla comunità.
La scontentezza è reciproca. I parrocchiani non hanno colto la sussistenza di concetti ai loro occhi così limitanti come intervento minimo e preservazione dei materiali originali, mentre il restauratore ha percepito una critica la propria professionalità dalle richieste dei parrocchiani.
È evidente che l’errore è stato a monte. Una mancanza di comunicazione, di capacità di spiegare il proprio punto di vista, di negoziare tra le rispettabili ragioni presentate da entrambe le parti.
Della complessità crescente che si trovano ad affrontare i conservatori e restauratori si è parlato nel recente I topi di Anacostia e il patrimonio al servizio del futuro, partendo dalle riflessioni dello studioso spagnolo Muñoz Viñas.
Nel corso di questa rubrica, più volte ha risuonato il leitmotiv di comunità d’eredità, punto focale della Convenzione di Faro. Ne ha dato una spiegazione specifica Alice Lombardelli nel suo I musei sono per tutti, ma solo un’élite lo sa.
Il dialogo tra le varie parti di questa comunità è stato da noi più volte sottolineato con entusiasmo, come del resto lo è da tutti i codici deontologici pubblicati da rispettabilissime istituzioni. Ciò che, però, è da riconoscere è che l’entusiasmo non dà consigli pratici su come agire.
È innegabile che, per imparare a dialogare e negoziare soluzioni, servirebbero una presa di coscienza e una formazione più capillare, che coinvolgano tutte le istanze interessate.
Se – come illustra il racconto del restauratore norvegese -, il dialogo risulta particolarmente complesso quando si tratta di conservare manufatti antichi, la conservazione del contemporaneo presenta alcuni elementi che sembrerebbero facilitare l’incamminarsi in direzione di una conservazione democratica.
Fattore dirimente, nella maggior parte dei casi, è la presenza viva dell’artista o, quanto meno, dei suoi assistenti diretti o eredi prossimi. Una buona parte degli artisti contemporanei è conscia del problema della conservazione del proprio lavoro, riflettendo questa consapevolezza nel proprio metodo di lavoro.
Un esempio è Piero Gilardi, prolifico artista piemontese, da cui Benedetta Bodo di Albaretto ha raccolto una bella intervista dal titolo Dentro l’opera: incontro con Piero Gilardi, apparsa sulle pagine di questo blog nel 2019.
Famoso per i suoi splendidi tappeti natura, realizzati in resina poliuretanica verniciata e pigmentata, nell’intervista Gilardi racconta di aver personalmente studiato la composizione dei materiali scelti, collaborando con fornitori e restauratori nella formulazione di quelle che possano essere le pratiche migliori da un punto di vista conservativo.
Tanto è vero che oggi, i collezionisti dell’artista possono far fede nel diretto supporto suo o di restauratori direttamente coinvolti nel processo creativo quando si tratta di dover agire sulle opere sia per la manutenzione ordinaria, sia per interventi di restauro veri e propri.
In questo caso, è l’artista stesso a fare da catalizzatore tra le varie istanze, godendo di una posizione di preminenza in quanto detentore del copyright creativo.
D’altro canto, la complessità dell’arte contemporanea può presentare invece problemi nuovi, rendendo il processo decisionale ancora più difficile o perfino inattuabile in alcuni casi limite.
Pensiamo a quelle forme artistiche che nascono nel solco dell’effimero e che per loro natura non prevedono conservazione, destinando se stesse all’annichilimento.
Un esercizio dell’oblio – utilizzando l’efficace espressione scelta sempre da Lombardelli in Passaggi di stato: arte contemporanea ed esercizio dell’oblio – sul quale il conservatore e la collettività hanno poco margine d’azione, dovendo rassegnarsi a osservare ed accompagnare con cura il lento decadimento dell’opera.
Ancora, alcune situazioni artistiche “di frontiera” come la street art, pongono barriere ideologiche a una negoziazione condivisa.
Nel 2016 la fondazione Genus Bononiae di Bologna, ha organizzato la mostra Street Art – Banksy & Co: l’arte allo stato urbano, che esponeva alcune opere dell’artista Blu, staccate (nel vero senso del termine) dal contesto originale in cui erano state eseguite, ovvero i muri esterni di una vecchia fabbrica in stato di abbandono, quindi portate su nuovo supporto mobile ed esposte nelle sale di un noto museo bolognese.
Una scelta unilaterale giustificata dall’eccezionalità che caratterizza la street art, ossia l’esecuzione spesso illegale dell’opera su proprietà private che ne determina la non appartenenza materiale all’artista.
Se oggi si riesce a intravedere l’aura benjaminiana in un’opera di street art, resta invero aperto il quesito di quali siano effettivamente le istanze coinvolte nella sua conservazione e in che modo esse possano dialogare e negoziare scelte conservative che ne preservino la matrice politica.
“Il caso Blu” di Bologna si concluse con l’artista in persona che, molto contrariato dalla mostra a cui non aveva chiesto di partecipare, si prodigò nel rovinare in maniera forse irreparabile i suoi lavori distribuiti sui muri della periferia felsinea. Una scelta senza dubbio radicale, ma comprensibile se riferita ai suoi ideali artistici e politici. (Leggi anche -> Il caso Blu a Bologna: una sfida al diritto dell’arte)
Il processo decisionale che porta a certe scelte conservative piuttosto che ad altre, è quindi figlio di un numero di variabili che richiedono valutazioni caso per caso.
Se è vero che certe prassi possono essere una buona base di partenza, resta il fatto che lo strumento più importante affinché il processo decisionale possa funzionare è uno: la capacità di comunicazione.
[1] Termine mutuato direttamente dal linguaggio aziendale e che identifica tutte le parti coinvolte da una qualche forma di interesse in un progetto.
[2] Stein, M., Francén, R., Thomsen, V. & Eriksen, L.S. 2000. To Regild or Not: Evaluation of an Inter-Scandinavian Restoration Project. In: A. Roy & P. Smith, eds. Tradition and Innovation, Advances in Conservation. London: IIC, pp. 182–7.