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La restituzione dei Beni Culturali: necessario un approccio più “flessibile”

del

Nel novembre del 2018 la pubblicazione del report Savoy-Sarr, commissionato dal Presidente francese Emmanuel Macron e contenente un controverso invito al ritorno incondizionato e automatico di tutti i beni culturali di origine coloniale conservati nei musei di Francia, ha riaperto con nuovo vigore il dibattito sul ritorno dei beni culturali ai loro Paesi d’origine. A più di un anno da quell’avvenimento, tuttavia, tale approccio sembrerebbe essere stato sconfessato dallo stesso Governo d’Oltralpe.

Non un singolo pezzo è stato restituito; tanto che lo scorso luglio il Ministro francese dei beni culturali, pur impegnando il proprio Paese a esaminare tutte le richieste che vengano presentate da Paesi africani, ha chiesto a questi ultimi di non focalizzarsi esclusivamente sul rimedio della restituzione. Significativo in tal senso è che la conferenza in cui il Ministro ha rilasciato queste dichiarazioni avesse per oggetto “un rafforzamento della cooperazione culturale con l’Africa”, con un’espressione che ammicca ad altre esperienze in cui alle richieste di restituzione di beni culturali è stata data risposta attraverso soluzioni alternative alla restituzione stessa (ritorno del bene senza passaggio di proprietà, prestiti a lungo e a breve termine, programmi di cooperazione, ecc.).

In ogni caso, è evidente che quello che l’esecutivo francese deciderà di fare sarà una questione (quasi) prettamente politica, in quanto la rigida applicazione del diritto, in questo come in altri casi simili, lascerebbe i Paesi richiedenti con un pugno di mosche a causa dell’irretroattività delle convenzioni internazionali adottate in materia.

Mr Felwine Sarr, Professore alla Gaston Berger University di Saint-Louis (Senegal) e Ms Bénédicte Savoy, Professoressa alla Technical University di Berlino (Germania) presentano all’Eliseo il loro rapporto: “The Restitution of African Cultural Heritage. Towards a New Relational Ethics”

Sebbene il diritto internazionale regoli la circolazione transnazionale dei beni culturali e gli obblighi di restituzione (o ritorno) derivanti dal furto o dall’esportazione illecita di tali beni, infatti, il gioco delle leggi applicabili nel tempo e dei termini di prescrizione e decadenza, o la possibile applicazione di leggi particolarmente favorevoli ai possessori di buona fede, conduce spesso a risultati che frustrano le aspettative dei richiedenti, siano questi Stati, enti pubblici o soggetti privati.

Tali esiti possono tuttavia risultare moralmente (e politicamente) inaccettabili, in quanto il valore intrinseco – culturale, spirituale ed emotivo – legato alla categoria di beni in oggetto fa sì che molte richieste di restituzione, pur non essendo fondate da un punto di vista giuridico, abbiano una forte connotazione di ricerca di giustizia per un passato conflittuale: ad esempio, le richieste provenienti dai Paesi ex-coloniali, di cui sopra, o quelle relative alle opere d’arte confiscate nei Paesi occupati dalla Germania nazista.

Uno degli esempi più noti di richieste il cui rigetto ha sollevato questioni di questo genere è il caso del Principe Hans-Adam II del Liechtenstein. La vicenda ha inizio al termine della Seconda guerra mondiale, quando la Cecoslovacchia confiscò, in qualità di riparazioni di guerra, anche beni di proprietà di cittadini di Paesi neutrali, sulla base di un’interpretazione estensiva della nozione di “nazionalità tedesca”, adottata dai Trattati di pace, tale da includere non solo i cittadini tedeschi, ma anche coloro che potevano essere considerati di origine tedesca secondo vari criteri.

Sulla base di tale interpretazione, fu confiscato un intero castello appartenente alla famiglia reale del Liechtenstein, con tutti i beni che si trovavano al suo interno, tra cui un dipinto di Pieter Van Laer. Già nel 1951 il Principe contestò la misura davanti alle corti cecoslovacche, che tuttavia la confermarono. Esauriti così i rimedi interni, il Principe non poté avvalersi di alcun rimedio sopranazionale, non essendo ancora entrata in vigore la Convenzione Europea sui Diritti Umani, né essendo in forza alcun accordo tra la Cecoslovacchia e il Liechtenstein volto a conferire giurisdizione su un’eventuale controversia tra i due Stati alla Corte Internazionale di Giustizia.

Il caso rimase così dormiente per quarant’anni, fino a quando, nel 1991, il dipinto fu prestato al museo Wallraf-Richartz di Colonia. Hans-Adam II, succeduto nel frattempo al padre, presentò allora ricorso al Tribunale coloniese, il quale declinò però la propria giurisdizione. In base al Trattato di Bonn, che sanciva le condizioni per la conclusione dell’occupazione della Germania Occidentale, era infatti inammissibile qualsiasi domanda giudiziale contro chi avesse acquistato o trasferito la proprietà di un bene in base a misure di confisca di beni tedeschi all’estero e, con giurisprudenza costante, i giudici tedeschi avevano adottato un’interpretazione teleologica di tale disposizione, in base a cui l’interpretazione data dal Tribunale della nazione vincitrice (in questo caso, dal Tribunale cecoslovacco) rispetto alla nozione di “nazionalità tedesca” era da ritenersi vincolante.

La decisione del giudice di Colonia fu quindi confermata dalle giurisdizioni tedesche fino alla Corte Costituzionale Federale, e il dipinto fu restituito alla Cecoslovacchia. Il Principe ricorse allora alla Corte Europea dei Diritti Umani, contestando una violazione del suo diritto di accesso alla giustizia e del suo diritto alla proprietà privata; domande entrambe rigettate dalla Corte. Infine, il Liechtenstein, agendo in protezione diplomatica, presentò ricorso alla Corte Internazionale di Giustizia, la quale declinò altresì la propria giurisdizione ratione temporis. Ed è così che, sulla base di un’interpretazione partigiana quando non arbitraria di una norma di diritto internazionale operata da un giudice interno, la richiesta di restituzione del Principe del Liechtenstein è stata definitivamente disattesa.

Pieter van Laer, Szene an einem römischen Kalkofen (“A Roman Lime Quarry”). L’opera propietà della famiglia del principe Hans Adam II del Liechtenstein dal 1767 fu confiscata dal governo Cecoslovacco nel 1946.

D’altra parte, non si possono omettere quegli elementi, come il passaggio del tempo, l’interesse del pubblico all’accessibilità delle opere e quello dei beni stessi a essere conservati in condizioni ottimali, che operano da contraltare alle istanze di restituzione e ritorno dei beni culturali.

A titolo esemplificativo di quei casi in cui l’accoglimento della domanda di restituzione lascia insoddisfatti altri, contrastanti interessi, si può fare riferimento a un altro caso noto al grande pubblico: quello relativo al Ritratto di Adele Bloch-Bauer (meglio noto ai cinefili come “Woman in Gold”) e altri cinque dipinti di Gustav Klimt. Si tratta di sei opere appartenute alla collezione di Ferdinand Bloch-Bauer, un magnate ebreo viennese, confiscategli a seguito dell’annessione nazista dell’Austria.

Dieci anni più tardi, a guerra finita, il Governo austriaco costrinse gli eredi di Bloch-Bauer a cedere i sei dipinti in cambio dell’autorizzazione ad esportare il resto del patrimonio di famiglia negli Stati Uniti, dove si erano nel frattempo stabiliti. Il caso venne alla luce solo nel 1998, quando l’Austria approvò una legge che consentiva di reclamare le opere d’arte ottenute coercitivamente da musei pubblici in cambio di autorizzazioni all’esportazione. Maria Altmann, nipote di Bloch-Bauer, presentò allora istanza alle autorità austriache per la restituzione dei Klimt.

La domanda di Altmann fu tuttavia rigettata sulla base di una disposizione del testamento di Adele, moglie di Ferdinand deceduta nel 1925, in cui la stessa chiedeva al marito, alla morte di quest’ultimo, di donare i dipinti alla Galleria Belvedere di Vienna. Dopo lunghi anni di battaglie legali davanti ai giudici austriaci e statunitensi, la disputa fu risolta solo nel 2005, a seguito dell’accordo delle parti a rimettere la decisione ad arbitrato secondo diritto austriaco.

Il tribunale arbitrale riconobbe così la proprietà di Altmann su cinque dei sei dipinti richiesti, che le furono immediatamente consegnati e che la stessa Altmann offrì poco dopo in vendita al Governo austriaco; non potendo quest’ultimo permettersi di riacquistarli, i dipinti furono infine battuti all’asta (per una cifra record) da Christie’s a New York. L’Austria è stata così privata di alcune opere che erano state esposte nella Galleria Nazionale per decenni e che erano ormai considerate parte del suo patrimonio culturale nazionale; inoltre, quattro dei cinque dipinti restituiti ad Altmann sono stati acquistati da privati e resi così inaccessibili al pubblico.

Gustave Klimt, Adele Bloch-Bauer I, 1907. Oil, silver and gold on canvas. 140 × 140 cm

Qualunque rimedio “a somma zero”, come quelli a cui porta l’applicazione del diritto, sembra quindi condurre a soluzioni inevitabilmente contrarie agli uni o agli altri interessi, tra loro contrastanti ma tutti legittimi e meritevoli di considerazione, che entrano in gioco nelle richieste di restituzione di beni culturali. Una soluzione ottimale dovrebbe, invece, realizzare un bilanciamento di tali interessi; sarebbe cioè auspicabile la ricerca di soluzioni “creative”, alternative alla restituzione e individuate caso per caso, che operino un compromesso soddisfacente per tutte le parti coinvolte e quindi veramente rappacificatorio.

D’altra parte, un risultato di questo tipo può essere raggiunto solo attraverso l’impiego di metodi di risoluzione delle controversie particolarmente “flessibili”, che permettano di prendere in considerazione anche standard non giuridici e di adottare rimedi diversi da quelli previsti dal diritto. In particolare, ci riferiamo alla mediazione e alla negoziazione, che negli ultimi anni hanno consentito la risoluzione di numerose controversie attraverso la conclusione di accordi contenenti impegni reciprochi, diversi e ulteriori rispetto alla mera restituzione dei beni contesi.

Ad esempio, attraverso la mediazione i cantoni di San Gallo e di Zurigo hanno raggiunto un accordo di questo tipo, con cui è stata posta fine alla secolare disputa per la biblioteca dell’abbazia di San Gallo; e fori per la mediazione sono stati predisposti dal Comitato intergovernativo dell’UNESCO (ICPRCP) e, congiuntamente, dall’International Council of Museums (ICOM) e dall’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale (OMPI).

Attraverso la negoziazione, invece, sono stati conclusi numerosi accordi di cooperazione culturale sia a livello intergovernativo, con la firma di trattati internazionali o di Memorandums of understanding, sia tra Stati e soggetti privati (come nel caso degli accordi stretti tra il 2006 e il 2008 tra l’Italia e sei istituzioni museali statunitensi) ovvero, più di recente, con il coinvolgimento diretto delle istituzioni culturali su entrambi i lati del tavolo negoziale.

L’esterno della Collegiata di San Gallo e Otmar (San Gallo). Fonto ditribuita con lincenza Creative Commons CC-BY-SA-3.0.

Questo tipo di soluzioni presenta dei vantaggi sostanziali anche rispetto al problema dei beni culturali di origine coloniale. L’accoglimento automatico di tutte le richieste di ritorno solleverebbe infatti questioni altrettanto spinose quanto la situazione attuale (in cui, giova ricordarlo, si stima che il 90% dell’arte africana sia conservata al di fuori del Continente): questioni di conservazione e accessibilità al pubblico, soprattutto.

Un approccio più flessibile consentirebbe invece di sviluppare programmi di reale cooperazione culturale tra i Paesi legati da un passato coloniale e le loro istituzioni culturali, facilitando non solo una rimarginazione delle ferite della storia, ma anche lo sviluppo di competenze tecniche e strutture adeguate nei Paesi di origine. Tale approccio “caso per caso” appare peraltro più realistico, e potrebbe permettere di raggiungere risultati sostanziali in tempi relativamente brevi.

Indicativa in tal senso è la promettente esperienza del Benin Dialogue Group, un tavolo di negoziazione che raccoglie vari rappresentanti della Nigeria e di alcune istituzioni culturali europee in cui sono conservate molte delle opere d’arte rimosse da Benin City durante il saccheggio della città da parte degli inglesi nel 1897. Il Gruppo, che si riunisce ogni anno dal 2010, nel 2017 ha concordato l’obiettivo di creare un museo a Benin City in cui esporre permanentemente una collezione di tali opere, che saranno messe a disposizione a rotazione dai musei europei sulla base di prestiti a lungo termine, in cambio di alcune garanzie prestate dalla Nigeria.

Nel 2018 e 2019 il Gruppo ha rinnovato tale impegno, e sta attualmente lavorando sugli strumenti tecnici e giuridici attraverso cui realizzarlo: passi significativi, che potrebbero segnare la strada anche per le altre richieste del medesimo tipo.

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