Ulm è una città di poco più di 120.000 abitanti sulle rive del Danubio al confine tra Baden-Württemberg e Baviera, in Germania, circa a metà strada tra Stoccarda e Monaco. Oltre che per aver dato i natali a Albert Einstein, è nota per il suo spettacolare Duomo, capolavoro dell’architettura gotica — fortunatamente non danneggiato durante la Seconda Guerra Mondiale — che è la seconda chiesa più grande della Germania (dopo il Duomo di Colonia) con il campanile più alto del mondo (ca. 161,6 m).
La cittadina offre anche altre attrattive: il bellissimo Rathaus edificato nel 1370; il Schiefes Haus, la “casa pendente” costruita da un (involontario) Frank Gehry del XV sec., che secondo il Guinness dei Primati è “l’hotel più storto del mondo”; in generale tutta la parte antica della città è una delizia splendidamente restaurata dopo i gravi danni subiti durante il conflitto mondiale. Ulm ha un Museo che ospita un’importante collezione di archeologia (con la più antica scultura di uomo-animale che si conosca: l’Uomo-Leone, risalente a circa 40.000 anni fa) nonché di arte dal medioevo al XX secolo, ma ha anche un Museo d’arte contemporanea vero e proprio: la Kunsthalle Weishaupt. Si tratta di un esempio di “museo privato”, nato per volontà dei collezionisti Siegfried e Jutta Weishaupt, che festeggia il decennale dall’apertura (avvenuta nel novembre 2007) con l’esposizione Best of 10 Jahre, ora in via di finissage (22 aprile).
Il titolo della mostra non a caso mescola il tedesco con l’inglese, data l’attenzione riservata dai Weishaupt all’arte statunitense. Tuttavia la “sala delle meraviglie” che accoglie subito il visitatore è di marca europea, a partire da quattro opere di Lucio Fontana: tre Concetti spaziali. Attese (due del 1965, il terzo del 1968) di dimensioni simili quasi a formare un trittico — tre tagli su fondo bianco, quattro su fondo blu, cinque su fondo rosso — più una Fine di Dio del 1963 (chissà se qualcuno ha mai sottolineato, a proposito di questa serie, le analogie tra le grumosità materiche dei bordi degli squarci sulla tela fissati dall’acrilico, e il caratteristico modo di modellare la ceramica nelle sculture di Fontana degli anni Quaranta e Cinquanta…).
Nella stessa sala vi sono poi un grande, bellissimo Monocromo blu di Yves Klein del 1959, un quadro-scultura con motore elettrico di Jean Tinguely (Blanc sur blanc, 1972), il bel Feldnarbe (1972) di Günther Uecker e l’affascinante Nöcen (1991) di Gotthard Graubner, artista — di cui avevo già parlato a proposito della mostra Intuition a Venezia l’anno passato — la cui figura sarebbe meritevole di approfondimento.
La sala seguente è dedicata soprattutto agli artisti legati alla cosiddetta Scuola di Ulm: la Ulmer Hochschule für Gestaltung, scuola di progettazione grafica e di disegno industriale fondata nel 1953 e diretta, fino al 1957, dall’architetto-pittore-scultore-designer svizzero Max Bill. Nata come ideale prosecuzione dei principi del Bauhaus, sul piano pittorico perseguì quello che Bill battezzò come “astrattismo concreto”, di cui vi sono qui esempi dello stesso Bill, di Josef Albers e di Friedrich Vordemberge-Gildewart, ex membro di De Stijl morto proprio a Ulm nel 1962, la cui opera esposta (Komposition nr. 210, 1958) mostra più che mai convergenze con le ricerche visive del nostro Luigi Veronesi. (Leggi -> Bauhaus, cento anni e una scacchiera)
Ma, come si diceva, gran parte della collezione Weishaupt è focalizzata sull’arte statunitense del secondo dopoguerra. Pur con pezzi in generale di qualità e importanza non straordinarie, la rassegna è molto completa: da de Kooning e Rothko a Ellsworth Kelly e Rauschenberg; da John Chamberlain a Frank Stella; da Dan Flavin a Keith Haring — il tutto culminante in una sala dedicata a Andy Warhol con un Flowers del 1964, Electric chair del 1971, i ritratti di Goethe (1981) e Federico il Grande (1986) e un enorme Last supper del 1985. I pezzi più importanti di questa parte della collezione mi sembrano tuttavia uno storico Kenneth Noland (Senza titolo, 1959), un grande Lichtenstein astratto (Perfect painting, 1985) e i due Basquiat 6 months (1987) e Amber vision (1988).
Quello che colpisce in questa mostra è soprattutto la coerenza e lucidità della collezione, ben focalizzata su nuclei precisi, risultato di una passione più che cinquantennale di questa coppia di industriali la cui figlia è l’attuale direttore del museo. Una pecca è forse l’illuminazione delle sale, poco calibrata, che spesso provoca fastidiosi riflessi che penalizzano la fruizione delle opere.
Una passerella collega poi il modernissimo edificio della Kunsthalle Weishaupt al Museum Ulm che, come dicevamo all’inizio, possiede a sua volta anche opere della seconda metà del Novecento: in particolare una vastissima collezione di grafica, nonché opere di arte europea e statunitense donate nel 1978 dal collezionista, pubblicista e editore Kurt Fried, che a partire dal 1959, nella sua galleria Studio f cominciò a esporre artisti internazionali all’epoca ancora non presenti nei musei tedeschi. Come e più che in altre città della Germania, quindi, si può dire che l’arte contemporanea abbia percorso tutto il dopoguerra di Ulm, accompagnandone la progressiva ricostruzione e restauro: ne sono testimonianza anche le numerose sculture disseminate negli spazi pubblici in tutta la città.