Mentre il nostro paese si avvia verso il primo Governo veramente post-moderno della storia repubblicana e Federculture rilancia il suo appello “Ripartiamo dalla Cultura” mirando, questa volta, ai nostri futuri e futuribili governanti, vorrei richiamare la vostra attenzione su due notizie che, inevitabilmente, sono rimaste sopraffatte del dibattito politico-elettorale delle ultime settimane ma decisamente importanti per chi ci tiene alla nostra cultura e, in particolare, per chi ama l’arte contemporanea. In primis per i collezionisti (o aspiranti tali), perché riguardano lo stato di salute del nostro sedicente Sistema dell’Arte.
La prima risale all’11 febbraio ed è il j’accuse di AMACI nei confronti del CdA del Castello di Rivoli reo, secondo l’Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani, di essersi dimostrato, alla data di scadenza del mandato del Direttore, «impreparato a garantire la continuità operativa e scientifica dell’Istituzione che governa». Una denuncia, quella fatta da AMACI, che si inquadra in un più ampio problema italico: «Ancora una volta – si legge nella nota diramata alla stampa dall’Associazione – come purtroppo accade troppo spesso in Italia, gli organi di governo di un’istituzione pubblica non sono stati in grado di definire in anticipo le linee programmatiche e le procedure per arrivare alla nomina di un nuovo Direttore nei tempi previsti». E nel caso non vi bastasse, ecco i retroscena che rendono ancor più drammatico un quadro dalle tinte già abbastanza fosche, coinvolgendo tanto il CdA quando le istituzioni del territorio che rischiano di creare le premesse per la «crisi irreversibile di un’istituzione culturale che dal 1984 rappresenta uno dei poli d’eccellenza per il contemporaneo a livello internazionale». Il ritardo in questione, procedono da AMACI, sarebbe dovuto, infatti, alla «previsione di un nuovo organismo gestionale: una Superfondazione per la governance dei musei Castello di Rivoli, Galleria d’Arte Moderna e la fiera Artissima».
La seconda notizia che vorrei portare alla vostra attenzione è invece una dichiarazione rilasciata il 7 febbraio al Corriere della Sera da Giancarlo Politi, direttore ed editore di Flash Art, nel presentare il suo Flash Art Event: «Aspettate qualche mese, avrete molte sorprese: il panorama delle gallerie d’arte cambierà, molte abbandoneranno l’Italia». Una diaspora che, stando a Politi, sarebbe dovuta – e qui cito quanto riportato dalla giornalista del Corriere – non solo alla crisi del mercato dell’arte italiano ma anche alla «fortissima pressione fiscale, alla criminalizzazione delle gallerie che, per sopravvivere, lasceranno l’Italia». «Siamo in mano ad una politica incolta, incivile, che non pensa alla cultura, nostra grande risorsa, anche economica – afferma Politi -. Si punisce l’arte con controlli assurdi e un’Iva che è la più punitiva al mondo. I collezionisti sono trattati come naturali evasori e lo stesso vale per i galleristi». Toni roventi con finale ad effetto: «In Italia tutti i galleristi sono degli eroi e tutti i collezionisti sono dei santi».
7 febbraio – 11 febbraio. Mentre l’Italia si accingeva ad una tornata elettorale quanto meno disarmante, nell’arco di cinque giorni due notizie hanno quasi sancito la morte di quello che, almeno sulla carta, è il nostro Sistema dell’Arte Contemporanea. Ma se la prima notizie che vi ho riportato è allarmante ed è doveroso indignarsi, la seconda, se permettete, mi fa un po’ sorridere. Senza nulla togliere ai galleristi illuminati che nel secolo scorso tanto bene hanno fatto alla nostra arte, sostenendo i nostri artisti migliori, e a tutti quei collezionisti che hanno permesso la nascita dei nostro musei (si veda a tal proposito l’articolo Musei: lasciate che i collezionisti vengano a noi…) le cose, nel nostro Sistema dell’Arte e nel nostro mercato, stanno in modo po’ diverso da quanto racconta Politi, con buona pace dei nostri giovani e valenti artisti costretti, come i loro colleghi di altri settori, a fuggire da un’Italia sempre più ingrata con i suoi “cervelli”.
Dati alla mano, infatti, se il nostro mercato dell’arte vale poco più dell’1% delle transazioni d’arte a livello mondiale (o,7% per la contemporanea), ciò è dovuto certamente anche ad un sistema fiscale oppressivo, a leggi inadeguate e ad una classe politica che può vantare, mediamente, un’ignoranza abissale. Prima di parlare di una persecuzione ai danni di galleristi e collezionisti, però, ci penserei un attimo… Sempre con gli stessi dati alla mano, infatti, è bene ricordare che anche nel campo dell’arte il nostro Paese può vantare un bel 40% di mercato sommerso e, un recente blitz della Guardia di Finanza in 24 gallerie e case d’asta, ha fatto scoprire un’evasione di oltre 2 milioni di euro di «diritto di seguito», cioè il compenso dovuto agli autori di un’opera dell’arte visiva per vendite successive alla prima. Ora, è vero che anche gli eroi e i santi hanno i loro scheletri negli armadi, ma qui mi sembra che oltre a truffare lo stato si gabbino anche gli artisti. Siamo proprio sicuri che lo Stato, in questo caso, stia perseguitando qualcuno? Forse, una prima soluzione a questo stato di cose potrebbe essere una maggior attenzione alle regole: pagare tutti le tasse per pagarne di meno. Ma ridurre ad una questione fiscale i mali del nostro mercato dell’arte sarebbe quanto meno semplicistico. Alla base delle sua debolezza, infatti, ci sono almeno quattro ordini di motivi:
Storici: il nostro paese continua a scontare le conseguenze del forte ritardo accumulato, già a partire dalla fine dell’Ottocento, sul fronte della valorizzazione e della promozione dell’arte contemporanea che ha causato un deficit strutturale che ancora oggi influenza pesantemente il sistema nazionale dell’arte contemporanea e, di conseguenza, il nostro mercato. Basti pensare che fino agli anni Sessanta del Novecento le nostre gallerie raramente sono in collegamento con il network internazionale dell’arte d’avanguardia, mentre in Francia già degli anni Settanta del XIX secolo inizia a configurarsi un mercato dell’arte basato sul sistema delle gallerie private e sulla sinergia tra critici, collezionisti e mercanti. Come se non bastasse, in Italia le case d’aste importanti arrivano tra gli anni Settanta e Ottanta (Christie’s e Sotheby’s), la prima fiera nasce nel 1974 (Arte Fiera) e il primo museo d’arte contemporanea nel 1984: il Castello di Rivoli.
Strutturali: il mercato dell’arte è uno degli ingranaggi che compongono il Sistema dell’Arte ma in Italia questo manca. Un Sistema, per sua definizione, è infatti un insieme di elementi coordinati tra loro in una unità funzionale. In Italia, invece, musei, gallerie, fondazioni, collezioni private e centri no profit, pur divenendo eccellenze, raramente dialogano tra di loro; a causa di un eccessivo personalismo di chi li guida vivono momenti di grande successo per poi declinare rapidamente; mancano, come ha sottolineato anche AMACI nel suo comunicato, di strategie a lungo termine, tanto da non riuscire, come nel caso del Castello di Rivoli, neanche a programmare la rielezione di un Direttore.
Oltre a questo, ancora oggi, mancano organi pubblici che gestiscano e supportino la diffusione dell’arte contemporanea sia in Italia che all’estero: in Inghilterra il British Council (promozione internazionale) e l’Arts Council (promozione nazionale) esistono rispettivamente dal 1936 e dal 1946.
Una lunga lista di assenti a cui è da aggiungere una cronica scarsità di: centri no profit che, sul modello dei FRAC francesi o della Kunsthalle tedesche, sostengano la crescita dei nostri giovani artisti; gallerie private che facciano un vero lavoro di ricerca e promozione di nuovi talenti; spazi culturali in grado di fare rete tra pubblico e privato e di stimolare la sensibilità per il contemporaneo. Ma sono anche rare le figure capaci di orientare le scelte dei maggiori investitori e di far crescere le quotazioni delle opere; di difendere gli avamposti culturali più estremi; di sostenere un dialogo tra gli enti e di promuovere collaborazioni con musei italiani e stranieri.
Congiunturali: l’Italia sta soffrendo la crisi economica in atto in modo più accentuato rispetto ad altre aree e i tempi di ripresa, per il nostro paese, sono più lunghi che per altri. Questo non ha permesso al nostro mercato dell’arte di agganciare la ripresa che, già dopo sei mesi dall’inizio della crisi, si è registrata nelle altre piazze internazionali. Una ripresa che è andata là dove c’era maggior concentrazione di grandi patrimoni (l’Italia è al 10° posto nel mondo), dove PIL, PIL pro-capite, inflazione e tassi d’interesse stimolano l’economia.
Culturali: la promozione delle nostre risorse culturali (musei, aree archeologiche ecc.) e dell’arte in genere è da sempre penalizzata dal fatto che in Italia si ha una difficoltà cronica nel guardare alla cultura come ad un prodotto vendibile sia figurativamente (la bigliettazione museale) sia concretamente. In incontri pubblici sul collezionismo ho sentito usare con riluttanza i termini “promozione” e “valorizzazione” per il semplice motivo che potevano lasciar trapelare gli aspetti commerciali dell’operazione ma i collezionisti, fino a prova contraria, e da sempre, comprano arte e gli artisti ci campano vendendola… A tal proposito, ve lo ricordate come è stata commentata sui giornali la nomina di Mario Resca a Direttore Generale per la Valorizzazione del Ministero per i Beni culturali? Beh, scaduto il suo contratto, in un’intervista al Giornale, Resca, parlando delle difficoltà incontrate durante il suo mandato, ricordava: «Non accettavano che si possano far girare le opere d’arte come testimonial della bellezza italiana nel mondo. Non accettavano che qualcuno dentro il ministero usi la parola “marketing”, che per loro è un termine osceno, ma per il resto del mondo è una scienza esatta». «L’Italia – proseguiva l’ex D.G. – ha 440 siti culturali, io ho provato a fare due cose: valorizzarli, cioè farli conoscere, per attirare più pubblico, e renderli più vivibili, offrendo servizi migliori, dalle toilette pulite alle caffetterie e ai ristoranti interni, portando i nostri musei ai livelli di ospitalità del resto del mondo. Perché vergognarsi a considerare il visitatore come un cliente da trattare bene per farlo tornare?».
Tutti questi elementi, assieme alla mancanza di una critica militante degna di questo nome, ad una certa esterofilia del nostro collezionismo, alla mancanza di collezionismo pubblico e di risorse pubbliche e al fatto, sostanziale, che sul mercato italiano raramente vengono vendute opere di importanza internazionale, mentre vi circolano molti lavori di fascia medio-bassa, portano a due conseguenze ben collegate tra di loro:
- il contesto culturale e artistico italiano è ormai decentrato. I nostri artisti hanno più difficoltà a farsi conoscere in Italia che all’estero, con il risultato che l’arte italiana contemporanea è praticamente assente, al di là di rari casi e di opere di artisti ormai storicizzati, dal mercato internazionale: tra i primi 500 artisti contemporanei più venduti al mondo gli italiani sono 6 e il più “giovane” è del 1962. Ma, d’altronde, solo nel nostro paese si è “giovani artisti” fino a 35 anni.
- mentre nel mondo il mercato dell’arte, negli ultimi 25 anni, si è più che decuplicato passando dai 27.2 miliardi di dollari del 1990 ai 64.1 del 2011, quello italiano è calato del 43% nel biennio 2008-2009 e di un ulteriore 32% nel 2011. Nel 2002 l’Italia pesava per il 3% nel mercato dell’arte internazionale oggi per l’1%;
Senza voler puntare il dito su qualcuno in particolare, mi sembra che i problemi del mercato italiano dell’arte, oltre ad avere radici lontane, possano anche vantare una lunga lista di colpevoli e tra questi anche quelle Gallerie che hanno ormai abdicato, vuoi per cambio generazionale vuoi per stanchezza, a svolgere il loro ruolo di ricerca e sviluppo nel campo dell’arte, preferendo troppo spesso trascurare il nuovo per vendere i lavori dei soliti noti così da non esporsi troppo. Basta, d’altronde, fare un giro nelle nostre Fiere più importanti per vedere cosa offrono molte delle Gallerie più blasonate d’Italia per farsi un’idea di quanto sto dicendo. Allora, forse, più che scappare all’estero (ma dove? Se anche le gallerie di Chelsea a New York sono in crisi!!!), i galleristi di Politi potrebbero, facendo leva anche sul loro nome, cercare di cambiare la situazione non solo sedendosi sul bordo del fiume ma sporcandosi le mani nel tentativo di far nascere in Italia un Sistema dell’Arte degno di questo nome, di far cambiare quelle regole che secondo loro strangolano il commercio dell’arte e magari affrontando il mercato con strumenti di marketing e di comunicazione adeguati ai nostri tempi così da ampliare il proprio pubblico e cercare di stimolare una nuova domanda, la nascita di nuovi collezionisti attenti anche alla scena nazionale. Quegli strumenti, badate bene, che gli servirebbero anche in altri paesi ben più agguerriti di noi sul fronte del marketing. Insomma, cerchiamo di essere meno provinciali e non nascondiamoci sempre dietro la scusa dello Stato cattivo. E’ il momento di rimboccarci tutti le maniche perché, come dice il buon vecchio Moustache in Irma la Dolce: «La vita è una guerra totale, amico mio, e nessuno ha il diritto di fare l’obiettore di coscienza».
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