La bella fotografia dell’Italia come paese dell’arte è sempre più un’immagine ingiallita dalla nostalgia di un passato lontano. L’Italia, il bel paese di Michelangelo e dei papi, quello con il maggior numero di siti Unesco, è anche quello che nella recente classifica mondiale dei musei più visitati al mondo, redatta dal Tea-Aecom Global Attraction Attendance Report, è slittato dalle prime venti posizioni. Se Franceschini confida nell’aumento delle visite dell’ultimo anno, ribadendo che il rapporto si riferisce a dati del 2013, i 2 milioni di visitatori degli Uffizi risultano comunque irrisori rispetto ai 9 milioni del Louvre.
L’Italia d’altronde è ancora costretta a fronteggiare problemi legati alla pubblica amministrazione e alle politiche di valorizzazione. Il paese della bellezza è lo stesso che risponde alla crisi aumentando i biglietti d’ingresso dei musei, piuttosto che investire sui guadagni derivanti dai servizi aggiuntivi a pagamento. Se dunque il patrimonio culturale italiano è celebre ed unico al mondo, i musei nostrani perdono visitatori. Ancora oggi, con i mezzi più raffinati che possono venire in soccorso, dai big data ai noiosissimi questionari di valutazione consegnati a ogni turista al termine della visita, non si è in grado di quantificare quanto tutta questa “bellezza” generi valore per la nostra economia.
Non solo le opere custodite dai musei sono sempre meno visitate, ma i beni artistici italiani perdono anche di appetibilità agli occhi dei collezionisti internazionali. Se il mercato delle aste potrebbe risultare più trasparente, quello primario delle gallerie, di cui non si conoscono i prezzi, è avvolto in una nebulosa grigia che non permette di quantificare il sommerso. Gli stessi studi sui prezzi in galleria sono veramente rari e tutto quel poco di informazione che si riesce ad avere è diffusa dalle aste, principalmente dai cataloghi e dai listini di aggiudicazione. Salvo quando le case d’aste non si pongono in conflitto con le gallerie, attuando le diverse pratiche che vanno dalle vendite dopo l’asta alle garanzie, fino ad arrivare ai cosiddetti auction ring – ossia quando un gruppo di acquirenti si mette d’accordo per non contrastarne un terzo e mantenere basso il prezzo d’asta – offuscando e alterando, in questo modo, la trasparenza di un mercato italiano che, a differenza di quello internazionale, sta mostrando solo ora timidi segnali di ripresa.
Le case d’asta, ricorrendo alla trattativa privata, depauperano di fatto la galleria, sostituendovisi nel ruolo e creando con esse una relazione contrastata, che si traduce in effetti negativi per la concorrenza esplicita nel confronto dei prezzi. Come dimostrano tutti i report, dall’Artprice al Tefaf, il mercato dell’arte a livello globale sta crescendo sempre di più. L’aumento delle concentrazioni di ricchezza si riflette sull’incremento dei consumatori di arte, di quei nuovi acquirenti sempre più interessati a investire. In questo contesto, però, il mercato italiano perde posizioni, classificandosi tra i peggiori al mondo per la mancanza di trasparenza e difficoltà di management. Di fronte a questo proliferare di economie sommerse, l’abbassamento dell’IVA al 4% per l’acquisto delle opere d’arte continua ad apparire come la soluzione più adatta per permettere una collaborazione tra pubblico e privato. Non a caso sono proprio gli Stati Uniti e la Cina le piazze dove l’arte contemporanea realizza record da capogiro, paesi dove la tassa di incidenza sul valore aggiunto è inferiore.
Considerata l’ultima debacle dell’arte italiana a New York (da Phillips de Pury, ndr), più che continuare a incolpare le gallerie di non essere in grado di sostenere i propri artisti, bisognerebbe realmente ragionare sull’importanza di introdurre un aliquota agevolata che permetterebbe di recuperare il valore delle transazioni sommerse, donando nuova linfa al mercato dell’arte contemporanea. L’Italia potrebbe, allora, incarnare quel paradigma di paese amante della bellezza che le è stato attribuito per secoli.
Bisognerebbe uscire dalla vergogna indotta dall’oscurantismo in cui viviamo e sentirci liberi di comprare un quadro, non necessariamente a cifre milionarie, ma semplicemente per investire i propri guadagni. Conterà pur qualcosa il fatto che il 33% del portafoglio finanziario sia basato sull’acquisto di opere d’arte. L’arte ormai è diventata un bene rifugio, qualcosa su cui investire nei periodi di crisi.
La bellezza del nostro patrimonio culturale non deve essere considerata un macigno di cui vergognarsi; è proprio questa bellezza a rendere affascinante l’Italia agli occhi dei turisti stranieri. Purtroppo chi legifera in questo paese, invece di educare a godere di tale bellezza, impone un blocco alla fruizione della stessa. Il diritto di comprare un’opera d’arte dovrebbe essere alla portata di differenti tasche, ma con una tassazione elevata sull’acquisto del bene, s’incentiva solamente una trattativa sommersa facendo apparire l’arte come qualcosa di elitario. Del gusto del bello invece non si dovrebbe aver timore perché, d’altronde, citando Platone: “Tutto ciò che è giusto è anche bello”.