Più belle della Via Giulia ce ne sono poche di strade cittadine in Italia. Sulla cartina, è da manuale di urbanistica: una corda tesa tra gli estremi di un arco che è l’ansa che fa il Tevere a sud del Vaticano. A far da capo settentrionale è la chiesa dei Fiorentini. A sud, il Ponte Sisto.
Essendo strada di dignità pontificia – porta il nome del Giulio II della Rovere che ne commissionò il tracciato a Donato Bramante – va da sé che nei secoli abbia visto spuntare sul suo prospetto tra i palazzi più belli di Roma.
All’altezza del liceo Virgilio, sorge il complesso di Palazzo Ricci, che dal 1934 ai primi anni ‘60 ospitò l’appartamento di Mario Praz, ovvero la casa della vita.
Questo è il titolo di uno straordinario libro pubblicato da Praz nel 1959. Bello, così bello da arrivare tra i finalisti del Premio Strega, sconfitto solo da un libro altrettanto bello, Il Gattopardo.
La casa della vita è al contempo libro di narrativa e catalogo di antiquariato, memory journal e raffinato magazine di interior design, come si direbbe in inglese, lingua niente affatto estranea a Praz, tra i più insigni esperti di letteratura inglese che l’Italia abbia mai prodotto.
Fu, tra l’altro, relatore per Roberto Calasso, laureando in questa materia con una tesi su I geroglifici di Sir Thomas Browne, e che come Deus Pater di Adelphi ripubblicò molto della bibliografia di Praz.
Una Casa museo di Mario Praz si trova oggi a Palazzo Primoli, all’imbocco del ponte Umberto I che porta al palazzaccio di Giustizia, lontano dall’atmosfera raccolta di via Giulia.
Ma quella è la seconda casa romana di Praz, e non la casa della vita del libro del ‘59, poiché l’autore ivi si trasferì solo dopo il 1964, quando intuì – dopo una rapina in casa vissuta in prima persona – che il tempo di Via Giulia era finito.
Introducendoci di stanza in stanza – o meglio, di pagina in pagina – negli ambienti di Palazzo Ricci, il nostro ospite contrappunta la descrizione degli oggetti d’arredamento con ricordi ad essi legati, portandoci su sentieri gustosissimi e, a volte, molto lontani.
E così, col pretesto di descrivere lo stemma del titolo nobiliare perduto appeso a parete, ci si incammina tra le memorie familiari; in quella della zia Cecchina, tirchia sino a invidiare lo stipendio di un portinaio, e in quella del bisnonno Polluce, garibaldino, che a Roma aveva risieduto a via del Boschetto vicino agli orti del convento delle clarisse di Panisperna, con un canale dove vedeva finocchi, carciofi, e gli stronzi delle monache che galleggiavano.
Quella di Praz è la storia di come, cominciando da piccoli coi francobolli, si possa arrivare a mettere insieme una collezione domestica in cui a farla da padrona è lo stile Impero, vero aim della sua mania di collezionista. E l’intransigenza riguardo alla purezza è massima, perché una bella scrivania Impero è un mobile tutt’altro che facile a trovare; per me è stato, se non l’ultimo, uno degli ultimi a entrare nella mia casa.
Gusto e fame sono i motori che muovono il collezionista, capace di tutto pur di appropriarsi di ciò che ha adocchiato. Su questa strana forma di mania, Praz è abbastanza drastico: sottoposta alla psicanalisi, la figura del collezionista non ne esce bene, e dal punto di vista etico c’è certamente in lui qualcosa di profondamente egoistico e limitato, di gretto addirittura.
A vantaggio della sua tesi, l’esempio del lampadario di bronzo nell’ingresso – tre sirene legate insieme per le code -, per la prima volta adocchiato nel negozio del libraio Batsford di Londra: una sera del 1934 a Parigi, mentre l’autobus su cui ero con mia moglie passava per Rue du Bac, vidi nella strada proiettato su un quadrato di luce dinanzi alla bottega d’un antiquario, o direi meglio rigattiere, proprio il profilo del lampadario di Batsford. Scendemmo alla prima fermata, ma l’esultanza della mia scoperta fu presto smorzata alla vista della qualità dell’oggetto. Tuttavia costava poco, settecento franchi, e siccome d’un lampadario avevamo bisogno per la camera da letto, lo prendemmo lo stesso.
Quasi negativo, secondo Praz, è lo stratificarsi dei sentimenti sugli oggetti, in questo caso sempre il medesimo lampadario: oramai è stato tanto tempo in casa mia, ha illuminato tanti momenti lieti e tristi della mia vita, che me ne separerei a malincuore.
Preferirebbe una presa di forza della ragione, con la speranza che forse un giorno quel criterio di selezione che ogni collezionista si propone di seguire l’avrà vinta sulle ragioni del sentimento.
E così via, in questa direzione, per quattrocento pagine, tra riflessioni, storie di mercanti d’arte, bei pezzi e qualche sòla, come la grande tela con Antonio e Cleopatra, di rimando vagamente poussiniano, pesantemente acconciata da un restauratore così da avere i polpacci del console simili a prodotti di carne insaccata, e la principessa egizia che stringe in mano un serpentello come a voler infarinarlo e friggerlo.
Ma la casa della vita in Palazzo Ricci, con i fregi sgraffiti di Polidoro da Caravaggio lungo tutta la facciata, non esiste più. Si è dissolta nella vita quotidiana per rimanere nella letteratura, così come da un giorno all’altro, a piccoli passi ogni domani striscia fino all’ultima sillaba del tempo prescritto; e tutti i nostri ieri hanno rischiarato a degli stolti la via che conduce alla polvere della morte.
Tipico fatalismo inglese, che nell’amato Macbeth trova il suo riferimento dotto.